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Chi ancora oggi si spinge all’interno della punta più massiccia del Peloponneso, si immerge in una Grecia diversa da quella più nota delle isole o delle coste. Una catena montuosa che sembra allungare le sue mani al cielo, e che era nota con il nome di Pentedàttilo, “le cinque dita”, domina la pianura sottostante. La punta più alta, il Taigeto, con i suoi 2500 metri, è spesso innevata: scosceso e quasi inacessibile, è territorio di selve e di capre selvatiche. La vallata è attraversata da un fiume, non di grande portata, ma dalle ampie sponde sabbiose piene di canneti, l’Eurota. In questa regione, che in età arcaica prese il nome di Laconia, si stabilirono fin dal III millennio a.C. gli Achei. Su un colle vicino all’Eurota fondarono una rocca, sotto la quale doveva già estendersi una cittadina. 

Nel mito raccontato dai Laconi, una delle famiglie della stirpe dorica, Taigete era una delle Pleiadi, figlie di Atlante: era bellissima, e Zeus se ne era innamorato. Dopo esser riuscita a sfuggire al dio correndo per tutta la pianura, Taigete era svenuta, e Zeus l’aveva finalmente fatta sua. Rinvenuta, e compreso l’accaduto, Taigete, per la vergogna, si era chiusa in una grotta del monte che avrebbe preso il suo nome, per sempre. Dall’unione era però nato un maschio, Lacedemone. Cresciuto tra le selve e le montagne, era divenuto un giovane valente. Di lui si era innamorata Sparta, figlia del re della zona, chiamato Eurota. Alla morte di Eurota, Lacedemone diede quel nome al fiume, chiamò Σπάρτα la nuova città fondata sulle sue rive, e Λακεδαιμόνα la rocca. Così erano nate Sparta e gli Spartani, severi discendenti di una ninfa e di un eroe fiero e selvaggio. In questi mitici personaggi gli abitanti della Laconia proiettavano le origini dei propri luoghi e del proprio carattere. Da quella stirpe erano discesi Tindaro, padre di Castore e Polluce, nonché di Elena e Clitennestra; Elena sposò Menelao e a loro, sul trono di Sparta, succedette Oreste, nipote e sposo della figlia di Menelao, Ermione. Alla stirpe di Oreste, dopo due generazioni, si mescolò quella di Illo, uno degli Eraclidi, figli di Eracle: di qui discenderanno tutti i γένη degli Spartiati, i veri aristocratici detentori del potere della città e della regione. 

Altrettanto avvolto dalla leggenda è Licurgo, benché nessuno dubiti, anche oggi, che sia realmente esistita una figura di tal nome. Le fonti antiche lo collocavano in un’epoca precedente a quella dei primi giochi olimpici, dunque nel IX secolo a.C. Secondo altri era l’undicesimo discendente di Eracle. I re di Sparta, appunto discendenti di Eracle, avevano dovuto faticare non poco a contrastare le rivendicazioni dei capi degli altri γένη aristocratici, che spesso si erano sollevati: ciò era accaduto anche a Euripontide, ucciso in una rivolta. Il regno era passato così al fratello maggiore di Licurgo, di nome Polidette. Morto costui, dopo breve tempo, il potere sarebbe dovuto passare nelle mani di Licurgo. Ma la moglie di Polidette rivelò di essere incinta: se le fosse nato un maschio, sarebbe spettato a lui governare. Licurgo, mostrando già in questa prima occasione la sua saggezza e rigorosa onestà, governò per otto mesi, fino alla nascita del piccolo, che appunto si rivelò maschio. Licurgo respinse, anzi, le trame di chi avrebbe voluto far fuori il neonato e lasciare lui sul trono. Così consegnò il potere al piccolo e alla madre, come reggente. Disgustato però dagli intrighi, decise di lasciare Sparta e compiere un lungo viaggio, alla ricerca della Giustizia e della Legge. Approdò innanzi tutto a Creta: qui studiò la legislazione antichissima delle città cretesi, e ne rimase colpito per il carattere severo ma giusto. Incontrò anche dei poeti che scrivevano canti patriottici per incitare i cittadini alle virtù militari e civili: anche da ciò trasse ispirazione. 

Da Creta Licurgo passò in Asia Minore, e soggiornò in diverse città ioniche: voleva mettere a confronto lo stile di vita severo e frugale dei Cretesi con quello lussuoso e aperto degli Ioni. L’unica cosa che gli piacque furono i poemi di Omero, che conobbe per la prima volta: ne ricopiò ampi brani, che avrebbe riportato in Peloponneso. Giunse anche in Egitto, dove rimase ammirato della distinzione netta in caste, fra lavoratori e soldati.

Nel frattempo, a Sparta, molti rimpiangevano Licurgo: gli inviarono lettere per spingerlo a tornare in patria, e Licurgo accettò. Prima, però, passò per il santuario di Apollo a Delfi, ove ricevette l’oracolo per cui il dio lo invitava a riformare le leggi di Sparta: solo in questo modo i cittadini sarebbero stati al sicuro e la città sarebbe stata invincibile per secoli e secoli. 

Tornato a Sparta, dunque, assicurò il re che il suo potere sarebbe rimasto inalterato, ma introdusse una serie di altre riforme che trasformarono il regno in un regime politico nuovo ed effettivamente formidabile. Per queste riforme Licurgo passerà alla storia come uno dei “legislatori” più famosi del mondo antico, e la costituzione di Sparta diventerà uno dei modelli politici più amati, ma anche odiati. La legge di Licurgo si chiamerà ῥήθρα, “dettame”, perché “detta” (ῥέω) quasi divinamente per ispirazione del dio.

I re divennero due, per bilanciarne il potere: alla famiglia degli Euripontidi si affiancò la famiglia degli Agiadi, discendente da un mitico Agide. Ma la più importante riforma di Licurgo fu l’istituzione del “Consiglio degli anziani”, la Γερουσία, formato da 28 anziani. Tutto il potere era nelle mani di questi due poli. Esisteva, però, anche una “assemblea” dei cittadini in armi, chiamata ἀπέλλα. Si riuniva all’aperto, anche col freddo e sotto la pioggia, perché – secondo Licurgo – “un edificio chiuso avrebbe infiacchito e distratto la riunione”. Durante l’assemblea nessuno poteva parlare, né tantomeno fare proposte: l’ἀπέλλα poteva solo approvare o respingere (quasi mai…) le decisioni dei re o della γερουσία.

La magistratura degli ἔφοροι, una sorta di “controllori” dei re, non appartiene a Licurgo: venne introdotta solo alla fine del VI sec.a.C. 

Le riforme di Licurgo tuttavia non furono solo politiche e istituzionali. Con una legge Licurgo vietò ai ricchi di accumulare terreni in latifondi privati. Le terre vennero requisite e redistribuite a tutti in parti uguali: solo partendo da medesime condizioni, disse Licurgo, sarebbe potuta emergere la vera virtù di ognuno.

Licurgo abolì da Sparta anche l’oro: coniò monete di ferro, senza valore intrinseco, ma solo convenzionale. Così facendo eliminò furti e rapine, nonché avarizia e cupidigia. Espulse dalla città e da tutta la Laconia le professioni ritenute inutili e dannose: retori, indovini, cortigiane, artigiani di vestiti e scarpe, di mobili e di ornamenti. Ognuno avrebbe fabbricato in case l’occorrente, semplicemente il necessario.

A questo quadro istituzionale, economico e politico, corrisposero, nella Sparta arcaica e classica, conseguenze sociali e culturali che, nelle fonti, sono ricondotte ancora una volta a riforme di Licurgo. Si tratta, più probabilmente, di tradizioni propriamente doriche, che affondano le radici in lontani riti e pratiche di clan indoeuropei particolarmente severi.

Il modo di vivere degli Spartiati, in effetti, si distinse da quello di tutti gli altri Greci: molti lo derisero, lo schernirono e lo additarono come illiberale, antidemocratico, persino spregevole. Molti altri lo idealizzarono ritenendolo modello di onestà, frugalità e correttezza. Ancora oggi, i termini “spartano” e “laconico” indicano severità e durezza, concisione e semplicità. Ma qual era la vita quotidiana degli Spartiati, per quel che possiamo ricostruire, tra VIII e V sec. a.C.?

Già le riforme della moneta e l’espulsione delle attività di lucro, o meglio, il divieto che i veri Spartiati potessero esercitarle, aveva avuto lo scopo di allontanare la brama di ricchezza dalla classe dominante (si parla, in età storica, di non più di diecimila famiglie). Un’altra tradizione assolutamente particolare di Sparta erano i pasti in comune. Era vietato preparare il principale pasto nelle dimore private. Tutti dovevano riunirsi in grandi capannoni dove veniva servito il medesimo pasto a tutti. Un pasto, oltretutto, frugale: schiacciatine di pane di acqua e farina (senza lievito), formaggio, olive, fichi, qualche verdura e, ogni tanto, carne. Ma il cibo più apprezzato era il famoso “brodo nero”: cinghiale bollito nel suo sangue con aceto e sale. Entrati nei capannoni dei pranzi comuni, il più anziano della tavola si alzava e sentenziava: “Quel che si dice qui dentro non esca fuori”. 

Di notte, o nelle corte giornate invernali, lo Spartano doveva camminare per strada senza poter accendere una torcia, e ovviamente senza illuminazione pubblica: doveva imparare a muoversi nel buio, per avere coraggio e valore in guerra.

L’educazione dei giovani appartenenti alle famiglie spartiate era un altro particolare aspetto, a cominciare dalle ragazze. Fin da bambine erano avviate alla ginnastica, alle corse e alla lotta: dovevano sviluppare il loro corpo per diventare madri perfette, ma in questo modo erano oggettivamente più libere della maggior parte delle donne in tutte le altre città della Grecia. Per non avere pudori o malizie, anche le ragazze dovevano sfilare nude nelle processioni e gareggiare nude nelle feste, alla presenza dei giovani. Alcuni testi poetici che sono giunti fino a noi testimoniano che partecipavano a culti e riti molto elaborati. Ai ragazzi potevano rivolgere non solo la parola, ma soprattutto ingiurie e canzonature, nel caso apparissero poco coraggiosi o poco preparati. Gli scapoli non solo non erano apprezzati: a loro, una volta l’anno, era riservata una cerimonia di spregio, nella quale venivano costretti a fare il giro della piazza cantando una canzone autoironica, nella generale canzonatura degli altri. 

Tutto particolare era il tipo di matrimonio praticato a Sparta. Quando un giovane aveva adocchiato una ragazza che gli interessava, cercava di capire dove abitasse. Poi, studiata la situazione, e aspettando il momento giusto, ad un’età non inferiore ai sedici-diciotto anni, una notte entrava in azione e la rapiva letteralmente dalla casa dei genitori. Costoro certamente si accorgevano di quanto accadeva, scrutavano e cercavano di capire chi fosse il giovane: se non intervenivano a difendere la ragazza, voleva dire che erano d’accordo. Così dunque il ragazzo si portava, a braccia, la ‘sposa’ in casa sua. Ad accoglierla, qui, era la madre del ragazzo, che rasava il capo alla giovane , le faceva indossare un mantello nero e la lasciava sola chiusa in una stanza al buio. Dopo qualche ora lo sposo entrava, aveva il suo primo rapporto con lei, e quasi subito dopo la abbandonava per  tornare nel luogo in cui viveva. 

I maschi spartani, infatti, fino a oltre i 25 anni, anche se sposati non abitavano con le proprie mogli, ma tutti insieme in edifici comuni, in un regime di carattere militare. Alla nascita, infatti, il figlio maschio veniva sottoposto a scrupoloso controllo. Si aspettavano alcuni giorni, per capire se sarebbe sopravvissuto. Nel caso in cui il neonato fosse apparso troppo minuto, o avesse mostrato segni di disabilità, la sua sorte era spregevole e drammatica: sarebbe stato abbandonato sul Taigeto. Chi superava l’esame era affidato alla comunità degli allevatori, Spartiati maturi che si occupavano di lui a tempo pieno. Veniva lavato nel vino, per provarne la tempra, nutrito con cibi sgradevoli, per formarne la semplicità alimentare. Veniva lasciato solo, al buio e al freddo, per non fargli sviluppare le paure. All’età di sette anni entrava a far parte di una comunità di coetanei che si esercitavano, studiavano, mangiavano tutti insieme. Gli anziani ponevano a capo di ogni comunità (una sorta di ‘classe’) il giovane che ritenevano il migliore: era lui a fare da portavoce dei superiori. Poteva anche punire i suoi coetanei: tutto ciò, si diceva, faceva sviluppare il senso di emulazione. A leggere e a scrivere imparavano lo stretto necessario. La retorica, del resto, non era affatto coltivata: bisognava parlare poco, e con cautela, quasi per sentenze. Essere “laconico”, ancora oggi, è sinonimo di sintesi. Tutto era rivolto alla preparazione militare. Dovevano abituarsi ad andare in giro nudi; un solo mantello l’anno gli era concesso. Erano tutti rasati a zero. Qualunque cosa facessero, erano sottoposti alle correzioni dei maestri. Nel percorso di iniziazione del giovane era prevista anche l’iniziazione sessuale: così, a scopo educativo, alcuni dei maestri deputati a sorvegliare e fare da guida ai ragazzi li iniziavano anche alla scoperta del proprio corpo e della propria sessualità. Lo facevano con pratiche omosessuali che a noi oggi fanno pensare ad altri morbosi fenomeni, quali la pedofilia. In realtà, tra i maschi adulti e i giovani – anche giovanissimi – Spartani, non c’era alcuna morbosità né perversione: i rapporti fra grandi e piccoli erano non solo ammessi, ma dovuti: facevano parte dell’educazione generale che gli adulti dovevano trasmettere ai giovani. I ragazzi imparavano canti militari e patriottici: in battaglia dovevano anche cantarli, oltre che lottare. Arrivati a 14-15 anni si potevano far crescere i capelli, e potevano concedersi qualche ornamento: ma solo alle proprie armi. Tutto il resto era vietato. Arrivati ai venti anni, infine, c’era la prova decisiva, chiamata κρυπτεῖα, “nascondimento”. Il giovane veniva lasciato solo nei boschi del Taigeto, per un intero anno: doveva procurarsi da solo da mangiare e da bere, da ripararsi e da difendersi contro le fiere. Se dopo un anno faceva ritorno in città, era divenuto finalmente uno Spartiate.

Poteva, in seguito, andare ad abitare con la moglie, e vedere i figli, che forse aveva già avuto ma che neanche conosceva, perché gli erano stati sottratti e affidati all’educazione comune. E il ciclo della vita ricominciava.

Per la maggior parte della sua esistenza lo Spartiate era fuori città impegnato in campagne militari. La madre (o la sposa), quando l’uomo partiva per la guerra, lo ammoniva di tornare “con il suo scudo, o sopra di esso”: abbandonare lo scudo in battaglia, infatti, era segno di estrema viltà. Ma, pur dopo una vita di grandi privazioni e di eroica virtù, sulla tomba dello Spartiate morto era vietato scrivere alcunché, neanche il nome. Anche il lutto doveva durare appena undici giorni: al dodicesimo, la vita doveva riprendere. 

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Gli antichi Greci raccontavano che il sovrano dei loro dèi, Zeus [a]Zeus, dalla vetta del monte Ida, il più alto dell’isola di Creta, aveva scorto una bellissima ragazza, che sulle rive della terra dei Fenici, più o meno l’attuale Palestina, passeggiava raccogliendo fiori. Invaghitosene, si era trasformato in toro, le si era avvicinato, l’aveva fatta salire sulla sua groppa e l’aveva ‘rapita’ dall’Asia, portandola con sé a Creta. La fanciulla si chiamava Europa, e avrebbe generato a Zeus tre figli maschi, Minosse, Radamanti e Sarpedonte, che sarebbero stati i fondatori della civiltà cretese, la prima grande civiltà di quel continente che, appunto da lei, avrebbe preso il nome di Europa.

Nella trasfigurazione del racconto, che i Greci chiamavano μῦθος, e noi da loro “mito”, sembrano straordinariamente presenti le tracce dell’antichissimo evento che ha visto la prima presenza dell’uomo nel continente che oggi definiamo Europa: le tracce di una migrazione, dall’Asia verso occidente.

Nei territori europei che si affacciano sul Mediterraneo, in effetti, i più antichi resti della specie umana risalgono a circa un milione di anni fa. In Italia, in particolare, i ritrovamenti di Apricena (Foggia) e di Monte Poggiolo (Forlì) hanno portato alla luce tracce di insediamenti umani e manufatti di pietra databili tra un milione e 800mila anni fa; a Ceprano (Frosinone) un cranio umano di 500mila anni fa; a Visogliano (Trieste) e a Venosa (Potenza) reperti risalenti a 400-300mila anni fa. Nella penisola greca, parallelamente, sempre tra 500 e 300mila anni fa, è attestata la presenza dell’uomo nelle grotte di Petralona, vicino a Salonicco. Fin da un milione di anni fa, dunque, l’uomo si era stabilito nei due territori che avrebbero segnato il destino del continente nei suoi primi duemila anni di civiltà: l’Italia e la Grecia. Si trattava tuttavia, già allora, di una storia molto lunga: un cammino di migliaia di chilometri e di milioni di anni.

La specie umana, in effetti, era stata tra le ultime a comparire, su un pianeta terra ben più antico. Se la formazione del nostro pianeta, infatti, pare risalire a cinque miliardi di anni fa, le prime forme di quella che possiamo chiamare ‘vita’ datano a 3,8 miliardi di anni fa: si trattava di organismi originariamente monocellulari, e in seguito pluricellulari, che, prima nell’acqua e poi, lentamente, sulla terra, a partire da mezzo miliardo di anni fa si erano sviluppati, in uno scenario completamente diverso da quello degli attuali continenti. Per centinaia di milioni di anni, la terra era stata popolata solo da creature marine, legate al principio essenziale della vita, l’acqua. Quindi si erano sviluppati gli anfibi, poi i rettili. Questi ultimi, nelle più diverse forme di dinosauri che i fossili ci aiutano a ricostruire, avevano dominato il pianeta per decine di milioni di anni. Finalmente, ‘appena’ 300 milioni di anni fa, erano comparsi i primi mammiferi, e tra questi, 60 milioni di anni fa, i primi esemplari di primati, o proto-scimmie. Vivevano sugli alberi, erano erbivori, e usavano tutti gli arti per muoversi. Intorno a 10-8 milioni di anni fa, però, il riscaldamento del pianeta nella fascia equatoriale-australe dell’Africa, tra gli attuali stati del Congo, del Kenya e dell’Etiopia, aveva provocato un cambiamento dell’ambiente naturale: le foreste erano divenute savane, molti alberi erano scomparsi, e una nuova specie di primati, che riusciva ad alzarsi su due piedi, guardare meglio al di sopra della bassa vegetazione, e difendersi dai predatori, si era sempre più affermata rispetto ai suoi simili, che avevano intrapreso un’altra linea evolutiva. È a questa specie che i paleontologi danno il nome di ominidi. Ma altri tre o quattro milioni di anni sarebbero dovuti ancora passare per arrivare al primo esemplare – a noi noto – per il quale possiamo parlare di vero e proprio ‘antenato’ dell’uomo. Sempre in Africa, nelle zone centro-meridionali, sono stati rinvenuti i fossili dei cosiddetti australopitechi, “scimmie del sud”, databili a circa quattro milioni di anni fa. Per due milioni di anni questa specie di ominidi si era diffusa, stando a quel che possiamo ricostruire, in diverse zone del continente africano: camminavano ormai stabilmente su due piedi, conoscevano forme di vita associata, ma probabilmente si rifugiavano ancora sugli alberi; la loro scatola cranica era meno di un terzo della nostra. A questa specie appartiene il famoso scheletro fossilizzato di Lucy, vissuta  3,2 milioni di anni fa, così chiamata dai suoi scopritori, nel 1974, in omaggio a una canzone dei Beatles. Intorno a due milioni e mezzo di anni fa, sempre nell’Africa centro-orientale, per ragioni ambientali che ancora ci sfuggono, o forse solo per caso, era comparso un altro anello fondamentale della nostra linea evolutiva, il primo che gli studiosi definiscono con il termine homo. La novità genetica che aveva determinato l’affermazione di questa nuova specie era nella diversa conformazione delle mani: il pollice poteva opporsi alle altre quattro dita, consentendo una manualità superiore a quella dei predecessori. Anche il volume del cervello era maggiore: la metà del nostro. Queste novità biologiche non avevano tardato a dare i loro frutti. All’età di questo nuovo homo, oltre i due milioni di anni fa, datano i primi manufatti di cui abbiamo traccia: pietre scheggiate in diverse forme, come punte e come ‘macine’; sassi disposti in linee che probabilmente erano funzionali a realizzare ripari. Era nato quello che viene definito homo habilis: aveva iniziato a cibarsi di carne e a vivere stabilmente in gruppi. Poco dopo i due milioni di anni fa un nuovo troncone evolutivo si staccò dall’homo habilis: per la capacità di realizzare manufatti elaborati, gli studiosi lo hanno definito homo ergaster, cioè “laborioso”. Intorno ad un milione e mezzo di anni fa, ancora in Africa, un’altra linea evolutiva vide la luce: per la conformazione delle gambe e degli arti superiori, ormai non più impiegati come sostegni, è definito homo erectus. Ma le novità di questa nuova specie erano state molte altre. Nei siti dove sono stati rinvenuti i suoi fossili, vi sono le prime tracce di focolari: l’homo erectus aveva addomesticato il fuoco. Con esso aveva imparato a cuocere gli alimenti, soprattutto le carni, eliminando batteri e agenti patogeni, e conseguentemente evitando numerose malattie. La sua vita media si era allungata, e anche la sua prolificità. Era stato sicuramente per questo motivo, come ci insegna la comparazione antropologica, che già prima di un milione di anni fa la specie umana, in cerca di cibo e di terre, aveva intrapreso una prima migrazione epocale, che i paleontologi chiamano Out of Africa: a circa un milione di anni fa, infatti, datano i più antichi fossili umani fuori dell’Africa: in Asia, in India, in Cina, in Indonesia e anche in Europa. L’homo erectus aveva camminato per migliaia di chilometri, e stava colonizzando tutto il pianeta.

È proprio alla specie erectus di homo che risalgono, dunque, i primi colonizzatori dell’Europa meridionale, della Grecia e dell’Italia: avevano attraversato l’Africa settentrionale, erano passati in Medioriente, e di qui, tra la penisola anatolica e il Caucaso, avevano varcato i Balcani ed erano scesi, probabilmente lungo la costa, in Grecia e sul versante adriatico dell’Italia. Soprattutto le caverne e i ripari naturali divennero i luoghi nei quali i gruppi di erectus si insediarono, in modo stabile, a volte per migliaia e migliaia di anni. Certamente dovettero sviluppare anche una forma di comunicazione, nonché di organizzazione ‘sociale’.

La specie erectus si sarebbe perpetuata fino ad almeno 100mila anni fa, ma, nel frattempo, altre novità genetiche avevano riguardato individui che avevano dato vita ad altri tronconi di homo. È questa una storia ancora tutta da scrivere, perché i ritrovamenti sono sempre più frequenti, e sempre più si delinea una vicenda genetica dell’umanità che non è la linea diretta e semplice che gli studiosi avevano pensato di poter tracciare fino a qualche decennio fa. Le possibilità di ‘incroci’ tra i diversi sottotipi di homo, del resto, e la limitatezza delle nostre testimonianze, rendono assai problematica una ricostruzione del primo ‘albero genealogico’ della nostra specie. Una specie diffusa sia in Europa sia in Africa è quella definita homo Heidelbergensis, dalla città di Heidelberg, ove avvenne il primo ritrovamento: a questa specie appartengono anche i più antichi fossili italiani. Fin dal 1856, inoltre, erano stati scoperti, nella vallata tedesca del fiume Neander, resti di una linea evolutiva ancora in parte diversa: l’homo di Neandertal. Altre tracce di questo tipo di homo furono poi scoperte in Francia, nella penisola iberica e in tutta Europa, fino al medioriente: datano a circa 300mila anni fa. Aveva una corporatura robusta, statura medio-bassa, ma una capacità cranica quasi pari alla nostra. Forse anche per le caratteristiche climatiche dei luoghi di ritrovamento, si copriva di pelli, impiegava ormai il fuoco in modo sapiente, e realizzava veri e propri utensili come asce, coltelli, e altro. Sembra, dalla posizione di alcuni fossili, che avesse iniziato a dare sepoltura compiuta ai defunti: forse, dunque, aveva già sviluppato un senso religioso. Al contempo, i molti crani fracassati o segnati da colpi (non dovuti ad animali) fanno pensare che, sempre intorno a questo periodo, tra i 250 e i 150 mila anni fa, la specie homo avesse iniziato anche a manifestare il suo aspetto più violento, cioè la guerra o la lotta per la sopravvivenza con i propri simili.

Mentre i discendenti dei primi colonizzatori dell’Europa, erectus, Heidelbergensis e Neandertal, continuano a popolare il continente, in Africa si sviluppa l’ultima linea evolutiva di cui siamo i diretti eredi. Intorno a 200mila anni fa data infatti una nuova specie, che presenta di fatto le nostre caratteristiche. Proprio per distinguerlo da tutti i predecessori, e forse con un po’ di presunzione, i primi scopritori lo definirono homo sapiens. Certamente, questa specie raggiunse presto livelli molto evoluti di tecnologia e di vita associata, come risulta da tutto quel che si può dedurre dai siti di ritrovamento. Ma l’elemento di maggiore importanza che rese questa nuova specie protagonista del futuro del pianeta fu la capacità, in meno di 100mila anni, di colonizzare interi continenti, e adattarsi ad ogni ambiente naturale, dando vita a tutte le diverse etnie che ancora oggi popolano il pianeta. Etnie caratterizzate da elementi anatomici, fisiognomici, e soprattutto culturali ben diversi, ma tutte discendenti, in ultima analisi, da un’unica matrice genetica: un unico individuo di sapiens che si differenziò per un fortuito caso genetico dai suoi genitori, e che, presentando caratteristiche evolutive ‘vincenti’, affermò, nel corso di migliaia di anni, il suo patrimonio genetico su tutti gli altri. Come dimostra la genetica, e la genetica storica, la differenziazione del genoma di un individuo dipende, per circa l’85%, dalla variabilità interna alla sua ‘storia familiare’, e solo per un 15% dalla variabilità originaria ‘di gruppo’, cioè da quelle che è corretto definire etnie, dal greco ethnos, “popolo”. È ovviamente a questa percentuale che dobbiamo riportare le caratteristiche peculiari dei tanti popoli della terra, a cominciare dalla statura, dal colore della pelle, degli occhi o dei capelli. Questi elementi, tuttavia, pur essendo molto appariscenti, e a un primo sguardo così evidenti, non costituiscono che una percentuale minima, e solo anatomica, nella differenza tra miliardi di persone: ben altra e profonda è la percentuale che differenzia gli individui, a prescindere dalla loro etnia. Il concetto di ‘razza’, dunque, non solo non esiste, né ha legittimità scientifica, ma va rifiutato per il profondo significato negativo che, storicamente e tragicamente, ha portato con sé nella storia degli uomini.

L’homo sapiens, dunque, in un’altra epocale migrazione che gli studiosi definiscono Out of Africa II, arrivò ben presto in Asia, e di lì sia in Cina sia in India e in Oceania; intorno a 100mila anni fa lo troviamo già in Europa, praticamente in ogni territorio; dall’estremo lembo orientale dell’Asia, infine, circa 15mila anni fa, approfittando dell’ultimo abbassamento di clima che aveva provocato l’estensione dei ghiacciai, e l’unione temporanea di Asia e America del Nord, attraversò lo stretto di Bering e colonizzò, da nord a sud, il continente americano, ricongiungendosi, forse, dopo 5-7mila anni, con i suoi lontanissimi antenati che avevano raggiunto il sud America via mare, dall’Oceania. Un’avventura straordinaria, questa della migrazione del sapiens, che poche migliaia di uomini compirono in una natura ancora avversa e pericolosissima, mossi certamente dal bisogno di cibo e dal clima, ma anche da un innegabile, nuovo, elemento che differenziava questa specie da molte altre specie animali: il desiderio di muoversi, un senso innato di ricerca e di curiosità, che sarebbe stata la molla fondamentale dello sviluppo dell’homo sapiens.

Intorno a 100mila anni fa, la specie sapiens giunse, appunto, anche in Europa. Qui avvenne il primo ‘incontro’ tra diverse etnie, come potremmo definirlo in termini moderni, perché i nuovi colonizzatori trovarono gli insediamenti dei Neandertal, che nell’aspetto erano da loro ben diversi. I due tipi di homo convissero a lungo, certamente anche con incroci genetici – un capitolo ancora tutto da studiare – ma forse, soprattutto, con scontri violenti. Di fatto, intorno a 40-30mila anni fa, il Neandertal si estinse, e il sapiens divenne l’unico abitatore dell’Europa.

L’homo, si è detto, manifestava una radicale differenza rispetto a tutte le altre specie animali nella capacità di realizzare oggetti. Proprio sulla base del materiale impiegato dall’uomo per costruire oggetti gli studiosi hanno individuato dei periodi di questa lunghissima età prima di quella che chiamiamo ‘storia’: l’età, appunto, ‘preistorica’. Il primo materiale impiegato fu, ovviamente, il legno: ma nulla ci è rimasto di quanto i più antichi uomini realizzarono con esso. La prima ‘età’ che possiamo ricostruire, disponendo dei primi oggetti realizzati dall’uomo, è quella ‘della pietra’. I paleontologi la dividono in tre periodi, che prendono nome dal greco lithos, “pietra”: paleolitico (“della pietra antica”), dai primissimi reperti (oltre due milioni di anni fa) a circa 12mila anni fa; mesolitico (“della pietra di mezzo”), fino a 10mila anni fa circa; infine neolitico (“della nuova pietra”), fino a 3mila anni prima di Cristo.

In Italia, e nella Grecia continentale, numerosi ritrovamenti testimoniano un diffuso popolamento per tutto il paleolitico, come si è visto: proprio gli ‘oggetti’ in pietra rinvenuti nei diversi siti, a volte in migliaia di esemplari, testimoniano attività intensissime di produzione: dei veri e propri laboratori/industrie di punte, schegge, macine, e altro ancora. Si può parlare, per alcune aree geografiche, di vere e proprie ‘culture’ o ‘civiltà’ preistoriche, caratterizzate da elementi comuni, e perduranti nel tempo (anche per diverse migliaia di anni), nelle forme degli oggetti e nelle strutture dei siti. Dai 15mila anni fa, inoltre, abbiamo testimoniate, in Italia, le prime ‘statuette’ di pietra che raffigurano corpi umani, soprattutto femminili, in forme esuberanti (le cosiddette “Veneri”) che certamente simboleggiano fertilità e buon augurio, nonché i primi graffiti rupestri che rappresentano figure geometriche ma anche animali e uomini: si tratta delle prime manifestazioni che possiamo chiamare artistiche, e forse anche religiose.

Intorno ai 12mila anni fa si verifica l’ultimo periodo di abbassamento notevole del clima sul pianeta: l’ultima ‘glaciazione’. I mari si ritirano, le terre emergono: l’Adriatico si ritira fino al Gargano, ad esempio, e molte isole (tra cui l’Elba e la Sicilia) sono raggiungibili via terra. Anche le risorse alimentari, però, diminuiscono: è questo un nuovo periodo di grandi spostamenti umani, e di nuovi stimoli legati al bisogno.

Al periodo successivo, infatti, il mesolitico, risalgono le prime tracce di nuovi manufatti, come l’arco, e i primi reperti di ossa animali vicine ad ossa umane: si tratta di scheletri di cani, il primo animale addomesticato dall’uomo.

Intorno agli 8mila anni fa gli studiosi pongono l’inizio dell’ultimo periodo della preistoria, il neolitico. È da questo millennio che in diverse aree del pianeta avviene un passaggio epocale: osservando il ciclo della riproduzione naturale, l’uomo impara ad addomesticare e selezionare le specie vegetali di cui può cibarsi, e le specie animali più mansuete di cui può servirsi. Nascono l’agricoltura e l’allevamento, quasi contemporaneamente, e indipendentemente, in Medioriente, in Egitto, in Cina, in India, in America centrale e meridionale, soprattutto in territori pianeggianti e in presenza di fiumi. Sarà proprio da questa grande svolta – che ancora oggi chiamiamo “rivoluzione del neolitico” – che prenderanno l’avvio altre importantissime ‘svolte’: l’abbandono progressivo del nomadismo, la concentrazione in agglomerati urbani e la nascita di vere e proprie ‘società’ organizzate, la divisione del lavoro, la politica. Tutti elementi che ormai caratterizzeranno quella che chiamiamo “storia”.

Questa rivoluzione e i successivi sviluppi, però, non riguardano, almeno per i millenni iniziali, l’Italia e la Grecia, e l’Europa tutta. Qui, infatti, le culture paleolitiche resteranno legate almeno fino al VII-VI millennio a.C. ancora alla caccia, alla raccolta, e alle prime forme di pastorizia (capre e pecore). Mentre in Medioriente si costruivano le prime città di alcune migliaia di abitanti, dunque, nell’Europa mediterranea aggregazioni umane ben meno numerose erano ancora concentrate in grotte o ripari naturali, o in villaggi che possiamo solo immaginare. Solo in età relativamente ‘tarda’, dopo il III millennio a.C., alcuni popoli discendenti da questi antichissimi abitatori del continente lasciarono tracce concrete di una propria cultura: le etnie basche e iberiche, nell’attuale Spagna; gli Ugro-finnici, nella Scandinavia; i Sicani e gli Elimi in Sicilia; i Sardi in Sardegna. Una sola etnia diede vita ad una civiltà paragonabile a quelle del Medioriente: i Cretesi, appunto il popolo di Minosse.

Tuttavia, un’altra ondata migratoria di proporzioni rilevanti, proveniente dalle regioni tra il Medioriente e il Caucaso, e originata proprio dagli enormi sviluppi scaturiti dalla ‘rivoluzione agricola’, stava nel frattempo per giungere in Grecia e in Italia, determinando una svolta decisiva per il futuro.

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