Capitolo 14

Al termine della guerra di Troia, i figli di Teseo, Acamànte e Demofònte, tornano ad Atene, e riconquistano il potere ai danni di Menèsteo, messo sul trono dai Dioscuri. Le vicende mitiche dei due figli di Teseo sono narrate, da poche fonti, in modo confuso. L’ultimo loro discendente, tuttavia, dona il regno a una dinastia che proviene dal Peloponneso. Melànto, discendente di Nèleo, figlio di Poseidone, e re di Pilo, città costiera della Messenia, la punta più orientale del Peloponneso, era stato esiliato dai discendenti di Eracle, mito che adombra la calata dell’ultima stirpe greca, quella dorica, e si era recato supplice ad Atene. Alla sua morte sale al trono il figlio, Codro. Cronologicamente, il mito pone Codro nel pieno di quei secoli che alcuni studiosi hanno definito ‘medioevo ellenico’: si tratta, in realtà, degli ultimi eventi di cui non abbiamo documentazioni certe, ma solo tradizioni orali, appunto avvolte dalla leggenda. 

Codro è un re molto apprezzato nell’immaginario collettivo degli Ateniesi: durante una guerra con i Peloponnesiaci, cioè i Dori che avrebbero voluto invadere anche l’Attica, questi ultimi avevano ricevuto un oracolo: non si sarebbero mai impadroniti dell’Attica se avessero ucciso il re Codro in battaglia. Codro, venuto a conoscenza dell’oracolo, prese una eroica decisione. Indossò vesti doriche, e si intrufolò nell’esercito peloponnesiaco che assediava Atene. Qui, con un pretesto, uccise un soldato: gli amici di costui, irritatisi, lo uccisero a loro volta, ma quando gli tolsero l’elmo compresero quel che era accaduto: Codro si era sacrificato per Atene. Così tornarono in patria e Atene fu salva. In città, sulla sponda dell’Ilisso, si mostrava ancora in età ellenistica il sepolcro del re Codro, amato e onorato da tutti.

È al terzo successore di Codro, Acàsto, che risale – secondo quanto scrive Aristotele nell’opera dedicata alla Costituzione degli Ateniesi – la prima importante riforma della città: la trasformazione della carica di “re” da ereditaria a elettiva. Tra il IX e l’VIII secolo avvenne un’altra trasformazione: al “re” fu aggiunto un “polemárco”, cioè un comandante militare; il potere si divideva in due, dunque, ma non solo. Ben presto, dice Aristotele, le diverse tribù (cioè i clan familiari) che formavano l’aristocrazia ateniese decisero di eleggere al loro interno nove ‘capi’: erano gli ἄρχοντες, arconti (“governanti”), tra i quali il più importante, con funzioni religiose, prese nome di “re”; un altro di “polemárco”: aveva ruolo militare; un altro, “eponimo”, dava il suo nome all’anno in cui era in carica; gli altri, θεσμοθήται, erano “custodi delle leggi”: presiedevano le controversie giudiziarie e avevano funzione di ispettori. Accanto ad essi, su un’altra altura della città, il colle di Ares, detto “Areòpago”, fu istituito un collegio di anziani che aveva funzioni giudiziarie. I nove arconti e l’Areòpago, pur con funzioni diverse, rimarranno sempre due punti di riferimento importantissimi per la costituzione e la politica ateniese. In seguito alle trasformazioni dell’economia e della società greca di quel periodo, tuttavia, anche Atene fu scossa da profondi rivolgimenti: i nuovi ceti emergenti, soprattutto commercianti e artigiani, spingevano per intaccare il potere dei γένη nobiliari. Si colloca in questo contesto, forse intorno alla metà del VII secolo a.C., la vicenda di Cilone. 

Costui era un giovane appartenente a una famiglia antica e aristocratica, ma di aperte vedute. Lo zio era riuscito a imporsi come tiranno di Mègara, una città vicina ad Atene. Cilone, che si era conquistato una fama anche per via dei suoi successi nelle gare atletiche, organizzò così una spedizione per occupare l’acropoli e farsi tiranno della città. Numerosi contadini, tuttavia, spinti dalle famiglie nobiliari, assediarono a loro volta l’acropoli e costrinsero Cilone alla resa. A capo di costoro era Mègacle, della famiglia degli Alcmeònidi: Mègacle promise a Cilone che gli avrebbe risparmiato la vita, ma poi lo uccise mentre era supplice in un tempio, macchiandosi così di empietà. Il tentativo di tirannide di Cilone fu soffocato, ma per quest’azione Mègacle fu esiliato: sulla famiglia degli Alcmeònidi graverà per sempre una macchia di sacrilegio.

Proprio per porre un freno alle crescenti e sanguinose lotte per il potere, alla fine del VII sec. a.C. un arconte, Dracone, attuò una riforma di cui abbiamo alcune testimonianze più circoscritte. Dracone stabilì, per la prima volta, che ad eleggere i nove arconti potessero essere tutti i cittadini maschi adulti “in grado di armarsi come opliti”: la condivisione della difesa della propria terra diveniva requisito di cittadinanza. Dracone varò anche altre leggi: in particolare quelle riguardanti l’omicidio; si distingueva tra omicidio volontario e colposo: per quest’ultimo non vi era la pena di morte, ma l’esilio. Non era ammessa la vendetta privata, tranne nei casi in cui un marito avesse colto la moglie in fragrante con un adultero. 

La legislazione di Dracone non aveva ancora accontentato tutti gli strati sociali della città. Così, di lì a poco, le lotte politiche ricominciarono sempre più feroci. Atene, tra l’altro, era impegnata in una lotta decennale con la solita città di Mègara per il predominio sull’isola di Salamina.

Entra in scena, a questo punto, la prima grande personalità storica dell’Atene antica: Solone. 

Nato intorno al 640 a.C. e appartenente a una famiglia nobile (discendente da Codro, si diceva), ma con propensione al commercio, Solone era stato educato alla poesia e alla musica, e aveva anch’egli, in gioventù, esercitato la marineria e il commercio. Aveva viaggiato molto e conosciuto le usanze di diverse genti greche e straniere. Amava anche i piaceri, i banchetti, e nel corso degli anni si era fatto sempre più apprezzare dagli Ateniesi, anche per le sue ‘massime’ di saggezza, che coglievano valori morali come la giustizia e l’onestà. Un particolare episodio lo vide però protagonista, per la prima volta, a livello politico. Gli Ateniesi, come si è detto, combattevano con i Megaresi per l’isola di Salamina. Stanchi dei lunghi anni di guerra, avevano deciso di ritirarsi, e, per far sì che nessuno potesse ripensarci, avevano approvato una legge per cui non si sarebbe potuto più mettere in discussione l’argomento in pubblico. Solone, convinto che non bisognasse desistere, escogitò un espediente: fingendosi pazzo, arrivò in piazza, e pronunciò una poesia in cui incitava gli Ateniesi a riprendere la guerra. Dubbiosi, sulle prime, i cittadini si lasciarono convincere, attaccarono i Megaresi e conquistarono Salamina. 

La fama di Solone era divenuta grande, e quando, dopo gli ennesimi scontri tra fazioni, gli arconti decisero di affidare il potere a un cittadino “saggio” che avrebbe dovuto “pacificare” la città, scelsero concordemente Solone, che divenne αἰσυμνήτης, appunto “pacificatore” di Atene: è il 594 a.C. 

Solone, in pochi anni, mise mano a vaste riforme, in nome di quella che chiamò εὐνομία, “buone leggi”, cancellando innanzi tutto alcune severe norme di Dracone.

Le più importanti leggi, che Solone fece incidere in tavole di legno incorniciate e affisse nell’agorà ateniese, riguardarono la giustizia e l’economia. 

Migliaia di cittadini erano gravati dai debiti, contratti per far fronte alle spese agricole e commerciali; ma la legge prevedeva, in  caso i debitori non riuscissero a restituire in tempo il denaro ai ricchi, che questi potessero rendere schiavi loro, i figli e le mogli, e che potessero appropriarsi dei loro beni. Solone abolì questa legge, con un provvedimento definito σεισάχθεια, “scuotimento dei pesi”, e la trasformò in una multa graduale.   

Ordinò quindi la popolazione in quattro classi, legate alle rendite e ai redditi di ogni famiglia. Anche queste classi erano finalizzate a diversificare la partecipazione militare alla difesa della città, ma anche, conseguentemente, a un maggiore o minore grado di cittadinanza: 

– i cittadini della prima classe, i più ricchi, dovevano equipaggiare un cavallo, e potevano essere eletti arconti: sono chiamati πεντακοσιομεδίμνοι, perché la loro ricchezza è pari a 500 misure (medímni) di grano;

– quelli della seconda classe, meno ricchi, dovevano anch’essi prendere parte alla cavalleria, ma non potevano essere eletti arconti: sono gli ἱππεῖς, “cavalieri”;

– la terza classe doveva equipaggiarsi da opliti, e partecipava solo all’assemblea e alle cariche minori: sono definiti ζευγῖται, cioè agricoltori che possiedono una coppia di buoi (ζευγός è il “giogo”);

– la quarta classe era costituita dai nullatenenti: fungevano da rematori, e non avevano accesso ad alcuna carica: sono definiti θῆται, perché addetti ai carichi e scarichi nel commercio. 

Un’altra riforma importante fu la creazione di tribunali popolari, con giudici estratti a sorte tra tutte classi: qui venivano affrontati i contenziosi che non riguardavano omicidi o reati gravi.

Altre leggi di Solone meritano di essere ricordate. La legge sui testamenti dava la possibilità di lasciare in eredità patrimoni al di fuori del γένος, favorendo così le dinamiche sociali. Un’altra legge limitava le spese eccessive per funerali, che erano divenute un modo per sottolineare le differenze di ceto. Solone proibì l’esportazione di tutti i prodotti tranne l’olio, per evitare l’incremento di prezzi in Attica. 

Terminata la sua opera, Solone costrinse gli Ateniesi a giurare solennemente che non avrebbero mutato alcun provvedimento per almeno dieci anni, poi lasciò Atene. Le fonti raccontano con episodi probabilmente romanzati questi nuovi viaggi di Solone. Secondo alcuni autori, approdò innanzi tutto in Egitto, dove conobbe i sacerdoti degli antichi templi, che lo iniziarono alla filosofia. Quindi giunse in Lidia, regione dell’Asia Minore, e fu ospitato dal potente e ricchissimo sovrano Creso. Creso, superbamente convinto di essere l’uomo più fortunato del mondo, mostrò a Solone tutte le sue ricchezze, poi lo convocò e chiese quale fosse, secondo lui, l’uomo più ὄλβιος, cioè più “felice” e “fortunato”, che conoscesse. Ma Solone mise al primo posto un anziano ateniese, morto serenamente in vecchiaia, con tutti i suoi figli e nipoti ancora vivi; al secondo posto mise due giovani fratelli, che dopo aver compiuto un gesto di grandissimo onore nei confronti della madre, morirono coperti di gloria. Creso si sdegnò, e chiese a Solone in che modo giudicasse la felicità. Solone rispose che in ogni cosa va considerato l’esito: non si può ritenere qualcuno completamente felice, prima di averne giudicato l’intera vita. Questo è il vero criterio per misurare ogni felicità. 

Tornato in patria, ormai anziano, intorno agli anni settanta del VI sec. a.C., Solone continuò da privato cittadino a dare consigli di saggezza agli Ateniesi. La sua fama diventerà così grande che sarà considerato nell’antichità uno dei Sette sapienti, il gruppo di grandi σοφοὶ, “saggi”, provenienti da tutte le città della Grecia, famosi per il loro operato e per le loro sentenze di giustizia, equilibrio, onestà, amore e amicizia, alcune delle quali ancora oggi impiegate come espressioni proverbiali.

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