Dal 528 a.C., morto Pisistrato, i figli Ippia e Ipparco reggono il governo di Atene. Non sono, però, apprezzati come il padre, e irrigidiscono le proprie posizioni per paura di essere rovesciati. Atene diviene una città militarizzata: chiunque venga sorpreso a parlar male dei tiranni, viene immediatamente punito. Ippia fa fortificare un promontorio fuori città, per arroccarsi lì con i suoi seguaci, e dominare Atene col pugno di ferro. Dopo quindici anni di potere dispotico, però, non è un colpo di mano degli aristocratici a intaccare il potere dei Pisistràtidi. Il fratello minore dei due, Tèssalo, dipinto dalle fonti come temerario e arrogante, si era invaghito di un giovane nobile, di nome Armòdio. Costui però non corrispondeva l’amore del terzo figlio di Pisistrato: Tèssalo si sdegnò e, per vendicarsi, chiese ai fratelli di non far partecipare la sorella di Armòdio alla processione delle vergini durante le feste Panatenee. Era un affronto grandissimo, perché si metteva in dubbio l’onestà della ragazza. Così Armòdio, per vendicare a sua volta la cosa, chiese aiuto all’amico Aristogìtone per tendere un agguato ai Pisistràtidi. Nel giorno della processione, dunque, cercarono di aggredire Tèssalo, che fuggì; si lanciarono allora su Ipparco, ferendolo a morte. Le guardie circondarono immediatamente Armòdio, e lo uccisero. Aristogìtone fu catturato e imprigionato. Da questa vicenda ‘privata’ nacque però un turbamento politico. Aristogìtone, infatti, torturato in carcere, per ingannare Ippia iniziò a fare molti nomi di presunti congiurati, prima di riuscire a togliersi la vita. L’episodio di Armòdio e Aristogìtone, nella successiva propaganda democratica, e ancora oggi, a volte, sarà riletto e interpretato come atto dei tirannicidi, gesto di libertà e di liberazione dall’oppressione.

Ippia, intanto, divenne sempre più sospettoso e crudele. Passarono altri quattro anni di terrore, finché l’iniziativa fu presa, ancora una volta, dalla famiglia degli Alcmeònidi. 

Costoro, esuli dopo l’assassinio di Ipparco, convinsero gli Spartani a marciare contro Atene per liberare la città dai tiranni: in effetti la politica dei Pisistrátidi, espansionistica e progressista, preoccupava i Lacedemoni, che accettarono di intervenire nelle faccende ateniesi. Inviarono dapprima un generale, Anchímodo, per mare, ma questo fu sconfitto e ucciso appena sbarcato in Attica, anche grazie all’aiuto della cavalleria tessala alleata di Ippia.

Scese in campo, a questo punto, uno dei due re spartani in persona, Cleomene, con un esercito ben più numeroso: raggiunse via terra Atene, sconfisse la cavalleria tessala e insieme ad alcuni rivoltosi ateniesi costrinse Ippia a chiudersi nelle mura dell’acropoli. Ippia e i suoi figli cercarono di fuggire dopo poche settimane, ma furono scoperti. Gli Spartani, tuttavia, concessero a Ippia di scegliere l’esilio: così, nel 511 a.C., si concluse, dopo quasi cinquant’anni di alterne vicende, la stagione della tirannide ad Atene. Ippia, la moglie e i figli si rifugiarono nelle colonie ioniche dell’Asia Minore. Di qui, ben presto, furono accolti alla corte di Artafèrne, sàtrapo (“governatore”) della Lidia e genero di Dario I “il grande”, sovrano dell’impero più potente del tempo, quello persiano: un evento che avrebbe causato numerose ripercussioni per tutta la Grecia.

Negli anni immediatamente successivi alla cacciata dei Pisistràtidi, intanto, ad Atene si scontrano due nuovi capi politici, entrambi aristocratici: Iságora e Clístene. Quest’ultimo, ancora appartenente agli Alcmeònidi, sembra ad un certo punto soccombere nel gioco di alleanze dei clan aristocratici. Decide allora – questo dicono le fonti antiche – di schierarsi dalla parte degli strati più popolari, proponendo una riforma del tutto innovativa del sistema politico ateniese. 

Clístene propose innanzi tutto di suddividere la popolazione attica non più in realtà territoriali troppo connotate e identitarie, ma in dieci φῦλαι, “tribù”, create a tavolino, che contenessero ognuna una parte di territorio costiero, una parte della campagna, e una parte delle montagne. In questo modo si sarebbero mescolati gli equilibri di potere e si sarebbero intaccate le supremazie personali e territoriali di molti capi aristocratici. Inoltre, per ogni tribù, la parte maggiore dei cittadini sarebbe stata, numericamente, quella dei teti e degli strati popolari. Tutto ciò era finalizzato, nel progetto di Clístene, alla seconda grande innovazione. 

La vecchia assemblea, βουλὴ, che doveva essere consultata dagli arconti, e che esisteva secondo le fonti già dai tempi di Codro ma era formata in base all’appartenenza alle precedenti quattro tribù di origine mitico-leggendaria e tutte aristocratiche, venne ridisegnata in modo radicale. Il numero dei rappresentanti fu portato a 500: 50 per ogni nuova tribù. Ma il meccanismo più importante stava nel fatto che tali rappresentanti erano estratti a sorte fra tutti i cittadini dei nuovi raggruppamenti. Certamente era possibile rifiutare, se sorteggiati: ma la possibilità che ad essere estratti fossero sempre i soliti potenti aristocratici si sarebbe ridotta drasticamente. Questi βουλεῦται, “consiglieri”, duravano in carica per un solo anno, e presiedevano, a turno per tribù, l’assemblea. 

L’ultimo tassello della riforma di Clìstene fu l’assemblea, l’ἐκκλησὶα. Anche questa era un organo già previsto da secoli. Il suo ruolo, però, era sempre stato limitato, perché moltissime competenze erano affidate esclusivamente agli arconti. Clìstene diede all’assemblea, formata da tutti i cittadini maschi adulti (sopra i 30 anni) una quantità ben superiore di prerogative, prima fra tutte quella di ratificare – comunque – tutte (o quasi) le decisioni degli arconti. Il compito dell’assemblea, teoricamente a schiacciante maggioranza popolare, diveniva così decisivo. Qualunque arconte, qualunque potente avesse voluto proporre una legge, avrebbe dovuto discuterla nell’ἐκκλησὶα, di fronte a tutti i cittadini. Avrebbe dovuto prepararsi un discorso, una δημηγορὶα, “discorso pubblico”, e avrebbe dovuto affrontare il giudizio, e il voto per alzata di mano (χειροτονὶα) di tutto il δῆμος, “popolo”. In un giorno imprecisato dell’autunno del 508 a.C. la triplice proposta di legge di Clìstene fu approvata a larghissima maggioranza: era nata la δημοκρατὶα, “il potere nelle mani del popolo”. 

Con il ruolo preminente dell’ἐκκλησὶα diventerà sempre più importante saper parlare, saper organizzare strategie assembleari, saper toccare le corde dei circa 10-15000 Ateniesi che, abitualmente, frequenteranno l’ἐκκλησὶα quasi in ogni occasione. L’arte della parola si legherà sempre più a quella che diventerà anch’essa un’arte, una τέχνη, la τέχνη πολιτικὴ. L’educazione alla parola, alla cultura e alla retorica sarà sempre più importante, e anche le nuove classi sociali, i nuovi ricchi, persino i più poveri, ambiranno ad un’istruzione in grado di poter far di loro dei πολιτικοὶ. La professione di maestro di retorica, e di lì a poco di σοφιστὴς, “sofista”, si diffonderà e diventerà una figura tipica dell’Atene del secolo che sta per cominciare.

In una delle prime ἐκκλησίαι della nuova Atene democratica, forse sempre Clìstene fa ancora approvare una legge particolarissima, per evitare la possibiltà che altre figure politiche, nel futuro, possano ripetere l’esperienza dei Pisistrátidi, e farsi tiranni. L’ἐκκλησὶα, in caso di sospetto, potrà costringere all’esilio decennale un cittadino troppo in vista: la votazione avverrà mediante la segnalazione del presunto aspirante alla tirannide su dei cocci di vasi, ὄστρακα; per tale motivo si chiamerà “ostracismo”. Questa legge, posta inizialmente a salvaguardia del sistema democratico, mostrerà di lì a poco le sue aberrazioni: molti grandissimi politici verranno ostracizzati sulla base di semplici propagande montate dai loro avversari. 

I primissimi a farne le spese furono, negli anni seguenti, proprio molti esponenti di spicco degli Alcmeònidi. Clìstene, che aveva consegnato molto potere al popolo, decise di lasciare Atene e si recò in volontario esilio.

Isagora provò, con l’aiuto dello spartano Cleomene, a riconquistare consenso e potere ad Atene, ma ormai il germe della democrazia era radicato: gli Spartani, che erano arrivati con i loro eserciti ai confini dell’Attica, furono sconfitti; Isagora e i suoi lasciarono definitivamente Atene.

I pericoli per la città, tuttavia, non erano finiti. Nel 499 a.C., infatti, dalla lontana Ionia d’Asia, in particolare dalla città di Mileto, che era legata agli Ateniesi da affinità di stirpe e da legami politici ed economici, stava per arrivare in città la notizia di un evento che avrebbe cambiato la storia: il più grande impero di quei tempi, che aveva in realtà il suo centro politico e culturale nei lontani territori dell’attuale Iraq, l’impero persiano, aveva deciso di imporre il proprio potere sui Greci che vivevano lungo quella sponda dell’Egeo. Mileto si era ribellata, e la Persia stava marciando sulla città per distruggerla. 

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