Ai primi greci che avvistarono l’esercito, quella di Serse parve un’armata invincibile, mai vista: persiani, con tuniche fornite di maniche, calzoni, berretti di feltro morbidi, scudi di vimini, archi e lunghi pugnali; assiri, con elmi di bronzo, scudi, lance e clave; sciti, con turbanti, calzoni e lunghe spade ricurve; caspii, vestiti di pelli di capra e con lunghe spade; arabi, con lunghe vesti e archi ricurvi; etiopi, vestiti di pelli di pantera, archi e lance con punte di elefante. 

Mentre l’esercito sfilava, Serse chiamò a sé un greco che lo accompagnava, Demaráto, figlio di Aristòne, e gli domandò se davvero qualche greco si sarebbe potuto opporre a quell’esercito imponente. Demaràto rispose che la Grecia, da sempre, aveva tre compagne: la povertà, la virtù e le leggi sagge e vigorose. Per questo aveva da sempre combattuto contro il dispotismo. Per parlare solo degli Spartani, continuò, costoro si sarebbero opposti ai Persiani sempre e comunque, a qualunque numero si fossero trovati di fronte. Serse non comprese, e rise. Del resto, le notizie che arrivavano da ogni altra parte della Grecia erano ben diverse. 

Gli ambasciatori del Re, ovunque giungessero, ricevevano atti di sottomissione. Anche i sovrani e le aristocrazie tessale avevano consegnato acqua e terra a Serse. Disboscando interi territori per consentire il passaggio dell’esercito, Serse raggiunse le foci del Pèneo, poco sopra il golfo di Pàgase, nella regione di Magnèsia, a poco più di duecento km dall’Attica. Ad Atene e a Sparta il sovrano non aveva inviato alcun messaggero. E solo queste due città presero l’iniziativa di opporsi all’avanzata di Serse, che sembrava inarrestabile. Erodoto, in particolare, afferma: “Chi dicesse che furono gli Ateniesi i salvatori della Grecia, non mancherebbe di cogliere il vero: furono loro a risvegliare tutto il resto della Grecia e furono loro a respingere indietro il re”. Eppure, anche ad Atene i pareri non erano tutti concordi, soprattutto dopo che un oracolo delfico sembrava aver invitato la popolazione ad abbandonare la città e ad andare a fondare una nuova Atene in Magna Grecia, sulle coste dello Ionio. Gli Ateniesi non si erano dati per vinti, ed avevano richiesto un nuovo oracolo. La Pizia aveva profetato: “Quando tutto sarà perso, solo un muro di legno resterà inespugnabile, e salverà te e i tuoi figli”. Temistocle aveva subito interpretato quest’ultimo oracolo nel senso che le navi “mura di legno”, avrebbero salvato gli ateniesi. Convinse l’ἐκκλησία, e l’ipotesi di resa al nemico fu abbandonata. Temistocle, tuttavia, era consapevole della assoluta inferiorità di numero, e convinse l’assemblea anche ad inviare a Sparta ambasciatori per condividere i piani militari. Insieme, decisero di chiedere aiuto anche a Ierone, tiranno di Siracusa, una città che all’epoca era all’apice della sua potenza militare nel Mediterraneo occidentale. Ierone, piuttosto risentito, rifiutò di prestare soccorso: mai, infatti, di fronte a tutte le sue richieste, i greci avevano inviato soccorsi per difendere le colonie magnogreche dai Cartaginesi; egli, come anche i suoi predecessori, aveva sempre dovuto fare da solo: facessero dunque da soli anche Spartani e Ateniesi contro i Persiani. 

Appresa la risposta di Ierone, Temistocle organizzò la resistenza con gli Spartani. Il re di Sparta, Euribìade, reclamava il comando di tutto l’esercito. Molti Ateniesi erano contrari, ma Temistocle sapeva che su questo punto avrebbe dovuto concedere agli spartani carta bianca. Dunque si decise di attendere i persiani all’altezza dell’isola di Eubea, schierando a capo Artemisio, ove sorgeva un santuario di Artemide, la flotta ateniese e poche altre navi fornite dalle città che non si erano arrese. Un contingente di terra, invece, al comando dell’altro re spartano, Leònida, avrebbe opposto resistenza sbarrando lo stretto braccio di spiaggia che delimitava le montagne meridionali della Tessaglia e il mare, prima della Beozia e dell’Attica. Il passo, non più ampio, all’epoca, di poche decine di metri, era denominato Θερμοπύλαι (“porte calde”), per l’esistenza di alcune sorgenti calde. Un muro, antico, ormai in rovina, fu ricostruito. 

Serse diede ordine di attaccare prima con le navi. Tre triremi ateniesi, in avanscoperta, furono catturate, e chi poté tornare indietro raccontò dell’enorme flotta persiana. Fu ancora una volta la sorte, tuttavia, a indebolire la potenza del re: una violenta tempesta, infatti, si abbatté sulla flotta mentre da Skiàthos si dirigeva verso l’Eubea: poche navi poterono rifugiarsi nelle piccole calette della costa tessala: un terzo della flotta, e una gran parte degli uomini, fu distrutta. Temistocle, cogliendo l’occasione, compì una sortita contro una parte della flotta persiana e riuscì ad affondare molte navi e a riportare un primo insperato successo, anche se non decisivo: i rostri delle navi nemiche furono presi come trofei e dedicati al tempio dell’Artemisio, dove ancora secoli dopo erano osservati dai viaggiatori, che potevano leggere la dedica: “Su questo mare gli Ateniesi hanno domato/ uomini d’ogni razza, arrivati dall’Asia”. Serse ordinò a questo punto di aspettare, per riorganizzare il contingente marittimo, e intraprese il passaggio delle Termopili.

Si accampò a poca distanza dal muro e dalla spiaggia, con il grosso dell’esercito di terra. Dall’altra parte erano schierati 300 spartiati, 1000 Tegeati, 1000 arcadi e circa altri tremila peloponnesiaci, tebani e tespiesi. 

Appena gli alleati greci riuscirono a vedere, dall’alto dei monti che circondavano il passo, l’enorme esercito persiano, iniziarono a consultarsi sul da farsi, scettici e timorosi. Leònida, la cui famiglia si riteneva discendente da Eracle, comprese che non era possibile contare su di loro. Così congedò Tegeati, arcadi e tutti gli altri, e rimase a custodire il passo con i soli trecento spartiati.  Intorno alla fine di agosto del 480 a.C., Serse lanciò il primo attacco, sicuro di sbaragliare in pochi minuti la resistenza greca.

Per un’intera giornata i persiani si infransero contro lo schieramento spartano. Se un uomo cadeva, subito un altro subentrava al suo posto. Alla fine della giornata, erano migliaia i caduti persiani, pochissimi quelli spartiati. La seconda ondata si abbatté su Leònida il giorno seguente: gli spartani finsero di indietreggiare, ma, appena i persiani li raggiunsero, si voltarono improvvisamente e ne fecero strage corpo a corpo.

Serse, che osservava la scena dall’alto di un seggio, era indispettito ed esterrefatto. Il terzo giorno, dopo l’ennesimo attacco fallito, gli si presentò però un abitante del luogo, Efialte, secondo alcuni, o Onete, secondo altri, che rivelò al re un sentiero secondario ove poter condurre un battaglione che avrebbe potuto chiudere alle spalle gli spartani. Quella notte dunque, guidati dal traditore, i persiani attraversarono la montagna. All’alba, intanto, nel campo greco, l’indovino Megistia ebbe un esito negativo del sacrificio. Chiamò Leónida, e annunziò che era arrivato il giorno delle fine. Leònida fece appena in tempo a far schierare i suoi spartiati: dietro di loro comparvero i persiani. Si ricordò di un altro oracolo, per cui Sparta non sarebbe stata distrutta in questa guerra, se il suo re fosse morto. Serse diede ordine di attaccare dal fronte, mentre gli altri persiani calavano dalla montagna. Gli spartiati di Leònida combatterono sapendo bene che quello sarebbe stato il loro ultimo giorno. Leò- nida in persona cadde nelle prime file, combattendo corpo a corpo. Gli spartiati a questo punto si chiusero in cerchio, con il monte alle spalle. Solo dopo ore e ore, combattendo con le spade, con le mani nude e con i denti, anche l’ultimo spartano cadde sotto il numero e le frecce persiane.

Ci si può chiedere, oggi, per quale motivo Leònida abbia scelto di sacrificare se stesso e trecento dei giovani più nobili e valorosi di Sparta al passo delle Termopili. Certamente, l’educazione e la mentalità spartane erano improntate al sacrificio e alla dedizione alle armi. Certamente, sarebbe stato un disonore, nell’immaginario cittadino, tornare in patria dopo aver abbandonato lo scontro. Eppure c’è qualcosa di ancor più radicalmente diverso, rispetto alla nostra visione antropologica, che animò gli spartiati di Leònida a sacrificarsi, in quella fine di agosto del 480 a.C.: c’è il senso della gloria immortale che un’azione del genere avrebbe garantito a tutti loro; il senso di un’immortalità nel ricordo delle generazioni future, che era, e fu, in fondo, ancora per molti secoli, lo scopo principale dell’uomo antico. La vita non vale la fama immortale. E Leònida, come Achille che decide di rimanere a Troia pur sapendo che dovrà morire, sceglie la fama. Erodoto, del resto, che ben conosceva l’uomo greco, sottolinea che, accanto al rispetto degli ordini ricevuti, “Leònida capì che, restando lì, avrebbe lasciato una gran fama di sé e la prosperità di Sparta non sarebbe stata cancellata”. E aveva ragione.

Sul luogo ove i 300 di Leónida caddero contro i persiani, un’epigrafe commissionata dagli spartani avrebbe proclamato: “O straniero, annuncia ai Lacedemoni che qui/ noi giaciamo obbedendo ai loro ordini”. Un altro epitaffio, in versi lirici, sarà commissionato da Temistocle al suo amico e grande poeta Simonide:

Dei morti alle Termopili

gloriosa è la sorte, bello il destino,

altare è il sepolcro, al posto dei lamenti

vi è il ricordo, il compianto è lode.

Tale veste funebre né la muffa,

né il tempo che tutto distrugge oscurerà.

Questa tomba di uomini valorosi

come abitatrice scelse la gloria dell’Ellade.

Ne è testimone Leònida,

il re di Sparta, che lasciò grande

ornamento di virtù.

e fama eterna.

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