Dopo la vittoria a Maratona, Atene, come aveva predetto Milziade, si era guadagnata in tutto il mondo greco una fama grandissima. Il protagonista di quel successo, però, non aveva potuto approfittarne. Aveva cercato di sfruttare la situazione della ritirata persiana per impadronirsi dell’isola di Samo, ma l’assedio era fallito, e Milziade, ferito gravemente ad una gamba, tornato ad Atene nel 489 a.C., aveva persino dovuto affrontare un processo per aver speso inutilmente denaro pubblico nella mancata impresa. Condannato ad una multa, amareggiato, e sempre più dolorante per la ferita, morì pochi mesi dopo, probabilmente proprio per la cancrena alla gamba. Gli Ateniesi, in gran parte, lo avevano ben presto dimenticato, un dato frequente nella vita politica e nell’immaginario cittadino democratico, molto legato alla volubilità del momento e alla maggioranza variabile delle assemblee. Lo avevano dimenticato anche perché sulla scena politica si era ormai affacciata una nuova grande personalità: Temistocle.

Era nato, probabilmente, intorno al 525 a.C., da famiglia non nobile. La madre, inoltre, era straniera, tracia. I figli di madre straniera frequentavano un ginnasio particolare, fuori dal centro cittadino, il Cinosarge, dedicato a Eracle. Temistocle, adolescente, si era già fatto notare per capacità ginniche: era abile e caparbio lottatore. Ma i giovani dell’Atene aristocratica sdegnavano le gare con “quelli del Cinosarge”, e nelle competizioni ufficiali venivano scelti sempre ragazzi di altri ginnasi per rappresentare Atene. Temistocle dunque, un giorno, sfidò i giovani aristocratici ad un confronto con lui, al Cinosarge: li vinse uno dopo l’altro nella lotta, e da quel momento il ginnasio fu ammesso alle gare e considerato alla pari degli altri.

Fin da subito aveva mostrato grande passione per la politica e per la nascita della “democrazia” a cui aveva assistito di persona, proprio intorno ai vent’anni. Si esercitava a parlare e a comporre discorsi pubblici, non era troppo interessato alle attività artistiche e musicali, e ripeteva spesso “non so maneggiare una lira o un’arpa, ma datemi una città, anche piccola, e la renderò celebre e grande”. Si era già attirato l’attenzione del popolo, ma anche l’avversione di molti potenti, cercando di farsi largo nelle assemblee, quando era scoppiata la rivolta ionica. Era stato tra i più ferventi interventisti, e, nonostante la rappresaglia persiana del 494 a.C. contro Mileto, era stato eletto arconte per il 493. Era stato lui a commissionare al tragediografo Frínico il dramma ‘storico’ La presa di Mileto, che nelle intenzioni di Temistocle doveva servire a mettere in guardia gli Ateniesi su che cosa sarebbe potuto accadere nella guerra contro i Persiani. Nonostante tutto questo attivismo, non risulta dalle fonti che Temistocle avesse avuto un ruolo di primo piano nella battaglia di Maratona, pur avendo, all’epoca, superato i trent’anni. Forse a causa della rivalità con Milziade? Forse  per il timore di non avere, in quell’occasione, un ruolo da protagonista? In realtà Temistocle non è fautore dell’oplitismo, dell’esercito di terra, o della cavalleria aristocratica. Il suo progetto è trasformare Atene in una potenza navale, costruire una flotta imponente, e dare in questo modo dignità alla classe meno abbiente dei teti, impiegati come rematori sulle triremi. L’occasione per iniziare a mettere in pratica il suo piano gli è fornita proprio nei mesi successivi alla battaglia di Maratona, mentre l’astro di Milziade nella politica ateniese sta calando. 

Dalle miniere d’argento del Laurio, possedimento ateniese che proprio Milziade aveva conquistato anni prima, si ricavavano distribuzioni annuali di monete a tutti i cittadini. Temistocle, come racconta Plutarco nella Vita a lui dedicata, “si presentò audacemente e da solo davanti al popolo, per proporre di rinunciare alla spartizione degli utili e costruire una flotta di triremi da impiegare per nuove campagne militari”. La proposta fu approvata, perché la maggioranza popolare capì che la costruzione di una flotta avrebbe rappresentato un impiego ben più stabile della distribuzione saltuaria di argento. Dunque con la somma dei due anni successivi furono costruite cento triremi, il primo nucleo di quella che sarebbe stata la potente flotta ateniese. Il primo risultato, nel 488 a.C., fu la vittoria definitiva nell’annosa guerra contro Egina, che diede conferma del progetto di Temistocle. 

Non mancò chi sottolineò che la città si stava trasformando, che da opliti i cittadini sarebbero divenuti marinai e giramondo, e che le novità conosciute per mare in paesi lontani avrebbero mutato per sempre lo spirito degli Ateniesi, la loro purezza e integrità d’un tempo. Ma il processo politico, economico e sociale era ormai avviato. Il valore politico della scelta di destinare quelle risorse economiche ad una risorsa pubblica, come le navi, era forse sfuggito agli osservatori del tempo, ma sarebbe stata la chiave del successo e della democrazia ateniese.

Temistocle, intanto, doveva fronteggiare nella vita politica un altro avversario importante, Aristìde.

Figlio del nobile proprietario terriero Lisímaco, colto e integerrimo oppositore della tirannide di Ippia, che aveva contribuito a scacciare, Aristìde era poco più grande d’età di Temistocle, ed era soprannominato “il giusto”. Aveva combattuto al fianco di Milziade a Maratona e si era coperto di gloria in molte altre occasioni. Già nell’assemblea che aveva deliberato la proposta delle triremi, Aristìde aveva espresso parere contrario a quello di Temistocle, ma era stato sconfitto. Nonostante ciò, godeva in città di grande fama e apprezzamento: era stato eletto arconte due anni di seguito, nel 489 e nel 488 a.C. Ma Temistocle era impegnato con ogni mezzo ad eliminare politicamente il suo avversario. Così iniziò a far circolare voci su un suo presunto tentativo di farsi tiranno. In un’assemblea del 482 a.C. fu messa all’ordine del giorno la  proposta di ostracizzare proprio Aristìde. Racconta Plutarco che le voci messe in giro ad arte da Temistocle furono così pervasive, che, mentre si recava all’ἐκκλησία, Aristìde fu fermato da un contadino che proveniva dai demi fuori città: il contadino gli chiese di scrivergli sul coccio che serviva a votare l’ostracizzato il nome di “Aristìde”, perché egli era analfabeta. Aristìde gli chiese come mai ce l’avesse con quel politico, e se lo conoscesse di persona. Il contadino rispose che non lo conosceva, ma che gli avevano detto in molti che quell’uomo rappresentava un pericolo per la città. Aristìde prese il coccio e vi scrisse il suo nome, e il contadino lo ringraziò molto. Nell’assemblea, quel giorno, i voti furono favorevoli all’ostracismo, e Aristìde dovette lasciare Atene per l’esilio. Temistocle aveva vinto: era ora il più potente politico ateniese del tempo.

La gioia per la vittoria, tuttavia, era destinata a durare poco. Appena tre anni prima, infatti, nella lontana Persia, il re Dario era morto, lasciando il trono al figlio maggiore avuto da Atossa: Serse. Giovane – all’epoca aveva trentasei anni – e spregiudicato, capace e coraggioso condottiero, Serse aveva ripreso il progetto di invasione della Grecia. Già nel 484 a.C. aveva sedato le rivolte in Egitto e a Babilonia, assicurandosi la stabilità di quelle aree, per concentrarsi sull’Occidente. Così, proprio tra il 483 e il 482 a.C., Serse aveva iniziato a preparare una grandiosa spedizione contro i Greci, ancora una volta con due eserciti, di terra e di mare. Temistocle, all’apice del successo, avrebbe dovuto affrontare lo scontro più decisivo della sua vita. 

La spedizione persiana non sembrava essere iniziata sotto ottimi auspici: nell’aprile del 481 a.C., infatti, da Susa era stata visibile un’eclissi totale di sole, in pieno giorno; molti persiani, adoratori del dio Sole, l’avevano interpretata come un segno di sciagure, ma i Magi rassicurarono Serse preoccupato: l’evento prediceva per i Greci l’abbandono delle loro città, così avevano detto.

Serse, memore delle difficoltà della precedente spedizione di Mardonio e Artaferne, aveva da tempo iniziato i preparativi per evitare pericoli connessi alle tempeste dell’alto Egeo. Aveva innanzi tutto fatto scavare un canale per evitare la circumnavigazione del promontorio del monte Athos, da una parte all’altra della Calcidica: un canale ove potessero passare ben due navi insieme. Quindi aveva radunato tutto l’esercito di terra ad Abido, davanti allo stretto dell’Ellesponto. Da una costa all’altra, nella primavera del 480 a.C., aveva fatto costruire un grandioso ponte di barche, per far transitare l’enorme esercito che avrebbe dovuto invadere la Grecia: Erodoto parla di oltre un milione di uomini. Ma anche le stime degli storici più prudenti non scendono sotto i 300-400 mila soldati, provenienti da tutte le parti dell’impero persiano. Appena l’opera era stata conclusa, però, una grande tempesta aveva distrutto gran parte del ponte. Serse, indignato, ordinò che le coste fossero percosse con trecento colpi di sferza e che un paio di ceppi fossero gettati nelle acque, mentre si pronunciavano le parole: “O acqua amara, il sovrano ti impone questa pena, perché lo hai offeso: il re Serse ti varcherà, che tu lo voglia o no”. Poi il re aveva fatto tagliare la testa a quelli che avevano coordinato i lavori. Quindi aveva fatto riedificare un nuovo ponte, unendo finalmente l’Asia all’Europa.

La flotta, intanto, era partita da Mileto e da altre città della costa asiatica, verso l’alto Egeo. L’esercito di terra era guidato in persona dal re, che procedeva sul baldacchino trainato da dieci cavalli sacri, bardati di tutto punto, affiancati dai mille più valorosi e nobili lancieri persiani, e seguiti da diecimila soldati scelti. Lo seguiva la sua carrozza personale, chiusa, una sorta di vagone ‘presidenziale’ dotato di ogni ristoro. Prima di varcare lo stretto che separava Europa e Asia, Serse volle contemplare tutto il suo enorme esercito. Si fece portare su un’altura, e di lì, da un trono di marmo bianco, poté ammirare tutto l’Ellesponto coperto dalle sue navi, tutte le rive ricolme dei suoi uomini. Serse si riempì di gioia, ma, dopo pochi minuti, racconta Erodoto, scoppiò a piangere. Lo zio paterno Artabano, accortosi di ciò, gliene domandò il motivo. E Serse rispose: “Si è insinuato in me un senso di pietà per la brevità della vita umana, considerando il fatto che di tutte queste migliaia di uomini, tra cento anni, nessuno sarà ancora in vita”. Artabano annuì, e aggiunse considerazioni di preoccupazione per l’impresa: troppo grande sarebbe stato l’esercito per l’approvvigionamento, troppo immensa la flotta, per rifugiarsi nei piccoli porti della Grecia in caso di pericolo. Serse riconobbe queste eventualità, ma affermò che “le grandi imprese si realizzano solo a costo di grandi rischi”. 

L’indomani, all’alba, Serse in persona fece sacrifici all’inizio del ponte di barche, gettando in acqua una coppa e una spada d’oro. Terminata la cerimonia, iniziò il passaggio. Ci vollero sette giorni e sette notti perché tutto l’esercito attraversasse il ponte. I primi territori lungo il tragitto furono la Tracia e il Chersoneso: i soldati, assetati, prosciugavano l’acqua dei fiumi, e divoravano ogni risorsa di cibo che trovassero. La flotta, intanto, stimata da Erodoto in 1207 navi, proseguiva lungo le coste, superando l’Athos e dirigendosi verso la Tessaglia.

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