All’inizio dell’estate del 491 a.C., si mosse finalmente la spedizione che doveva giungere ad Atene e a Eretria. La guidavano Artaferne e un altro generale, Dati. I numeri descritti dalle fonti sono enormi: ben 600 triremi. Artaferne decise di evitare l’Egeo del nord: si mosse così attraverso le isole, da Samo a Nasso e Delo. Qui, pochi giorni dopo lo sbarco, in settembre, un forte terremoto causò ingenti danni e gravi perdite anche ai Persiani. Di nuovo i Greci lo percepirono come un segno di appoggio divino alla loro resistenza.

Passato l’inverno sulle isole, i Persiani giunsero nella primavera del 490 a.C. ad Eretria. Li aveva raggiunti, nel frattempo, Ippia figlio di Pisistrato. Come si ricorderà, Ippia si era rifugiato ormai da 20 anni in Persia, alla corte di Dario, e meditava una riconquista del potere in Grecia, come vassallo del gran Re. Fu lui a guidare la strategia contro gli Eretriesi, che furono sconfitti. La città fu incendiata e gli uomini giustiziati. Δαρεῖος, nell’immaginario collettivo greco, suonava sempre più come un nome parlante, che ricordava Ἀρεῖος, il violento dio della guerra.

Conquistata Eretria, Ippia propose ad Artaferne di attaccare Atene dal nord e sfidare gli Ateniesi in campo aperto sulla pianura di Maratona. 

In città la situazione era tesissima. I dieci arconti, tra i quali ancora Milziade, inviarono agli Spartani un ambasciatore, Filìppide, a chiedere un soccorso. Non si trattava solo di salvare Atene, disse ai re spartani, ma tutta la Grecia, che sarebbe potuta cadere in mano ai Persiani. Gli Spartani acconsentirono, ma dissero che, prima della luna piena, di lì a venti giorni, non sarebbero potuti partire con la spedizione: non era consentito loro, infatti, per legge divina e timore superstizioso, mettersi in cammino a luna calante. Quando il messaggero riferì agli arconti ateniesi la risposta dei Lacedemoni, gli Ateniesi decisero di non aspettare i rinforzi. Nel frattempo, tuttavia, erano arrivati in loro aiuto circa 2000 soldati da Platea, cittadina confinante con Atene.

Il sesto giorno del mese di Boedromione del 490 a.C., il 15 settembre, tutto era pronto per lo scontro. 

Quella notte, afferma Erodoto, Ippia aveva sognato di giacere con la propria madre: aveva interpretato il sogno come presagio di ricongiungersi con la sua patria. In realtà il sogno celava un ben più perturbante malaugurio.

I due eserciti erano dunque schierati uno di fronte all’altro. In campo ateniese, tuttavia, i pareri erano discordi. Alcuni arconti erano contrari ad ingaggiare battaglia; altri, e tra questi Milziade, vedevano nella prova finale l’unico modo per respingere il nemico. Proprio Milziade, rivolgendosi all’arconte polemàrco, Callìmaco, disse che in quel giorno si sarebbe deciso il destino di Atene: schiava o signora della Grecia. Milziade convinse il polemàrco e, con un solo voto di scarto, l’attacco fu deciso.

Gli Ateniesi schierarono la maggior parte dell’esercito sulle due ali, la destra guidata da Callimaco, e la sinistra da Milziade. Al centro, che si allungava in corrispondenza di tutto lo schieramento persiano, vi erano appena tre file di guerrieri. Tutti gli Ateniesi e i Plateesi erano equipaggiati da opliti, con scudi, gambali e lance pesanti. Di fronte a loro, i Persiani avevano concentrato al centro gli arcieri e ai lati la cavalleria: le loro truppe erano più del doppio di quelle greche.

Appena il sole fu alto tanto da averlo alle spalle, Milziade diede ordine di attaccare. I Persiani, a questo punto, si trovarono di fronte una scena sorprendente. Al segnale dato, tutto lo schieramento ateniese iniziò a correre, pur appesantito dalle armi, verso il nemico, e contemporaneamente a gridare in modo forsennato. Otto stadi, quasi un chilometro e mezzo, separavano i due schieramenti: gli Ateniesi, lanciati in corsa, coprirono la distanza in pochissimi minuti, e i Persiani, colti di sorpresa, prima pensarono che i greci fossero impazziti, poi non riuscirono ad essere efficaci con gli arcieri, perché le frecce non colpivano i bersagli in corsa. Piombati sulle prime file persiane, gli Ateniesi inziarono una battaglia “degna di ricordo”, come scrive ancora Erodoto. Ma la controffensiva persiana non si fece attendere, e la cavalleria, richiamata al centro, si gettò contro gli Ateniesi. A questo punto Milziade diede ordine di piegare le ali greche verso il centro, accerchiando il nemico: Ippia e Artaferne erano caduti nel suo stratagemma. Migliaia di persiani si diedero alla fuga verso il mare. Lo scontro, corpo a corpo, continuò per diverse ore. Lo stesso polemárco cadde sul campo, e con lui altri due strateghi, e molti cittadini famosi. A metà del pomeriggio, lo scontro era vinto: oltre seimila persiani erano caduti, a fronte di 192 Ateniesi. 

È opportuna, a questo punto, una riflessione di carattere storiografico e antropologico. Da questo momento della storia, infatti, le nostre fonti narrano spesso, in modo dettagliato, lo svolgersi di battaglie che, politicamente e storicamente, furono decisive nel corso degli eventi. Gli scontri tra stati e potenze, almeno dall’ultima guerra mondiale, sono stati quasi sempre determinati dall’effettivo numero delle forze in campo, dalle risorse economiche di un paese, dalle tecnologie. Per tutto il mondo antico, medievale e moderno, tuttavia, ad essere decisivi, nei conflitti, furono anche, spesso soprattutto, altri elementi, come le strategie militari, le capacità dei generali e, non ultima, la motivazione dei soldati. Non bisogna dunque stupirsi, e tanto meno pensare a semplici ornamenti letterari, di fronte ai racconti particolareggiati degli storici antichi, che sottolineano episodi e stati d’animo di condottieri e militari. La tattica impiegata dagli Ateniesi a Maratona, la ‘folle’ corsa in armi contro il nemico, fu davvero, e oggettivamente, la chiave di volta dell’intero scontro. Una corsa in armi, gridata, che aveva peraltro modelli religiosi, come la danza armata dei sacerdoti di Ares, così come il grido apotropaico, che galvanizzava i soldati e li proiettava in una dimensione eroica, quasi mitica, come i protagonisti dei poemi omerici che si lanciavano allo scontro gridando “potentemente”. L’aspetto dello svolgimento della battaglia, dunque, non va sottovalutato, e va ritenuto come uno dei più rilevanti per la vittoria ateniese.

Resosi conto della disfatta sul campo di Maratona, Artaferne, rifugiatosi sulle navi ancorate di fronte alla costa, cercò di raggiungere Atene sguarnita con le truppe rimanenti, doppiando capo Sunio in tutta fretta. Ma gli Ateniesi, con una marcia forzata, coprirono i 42 km tra Maratona ed Atene in poche ore e si schierarono tra la città e il mare. Quando Artaferne, dalle navi, sul far della sera, giunse davanti ad Atene, scorse l’esercito greco sulla riva. Maledicendo gli dèi, diede ordine di invertire la rotta e tornare in Asia. Atene, e tutta la Grecia, erano salve.

Nel frattempo un araldo, Filìppide, era giunto di corsa in città, direttamente da Maratona, ad annunciare la vittoria. La leggenda vuole che, appena giunto nell’agorà, dopo aver esclamato Νενικήκαμεν, “abbiamo vinto!”, provato dalla fatica e dalla gioia, morì. La battaglia di Maratona, nell’immaginario greco antico, rimarrà per secoli una delle glorie più significative vantate in particolare dagli Ateniesi. Ad essa la città dedicherà una cerimonia annuale, dove saranno elogiati i caduti, “maratonomachi”, con una processione che, per un certo tratto, riproduceva proprio la corsa armata dei combattenti, un po’ come la nostra fanfara in corsa dei bersaglieri. Su uno dei portici fatti costruire lungo un lato dell’agorà, di lì a qualche anno, sarebbero state rappresentate, in un affresco attribuito ai pittori Micone e Polignoto, la scena della battaglia di Maratona e, accanto ad essa, scene dell’Amazzonomachia, la guerra leggendaria con cui Teseo, fondatore di Atene, aveva liberato la città dal pericolo delle Amazzoni orientali. L’accostamento non era casuale: iniziava, in una propaganda che sarebbe stata uno dei temi fondanti della democrazia ateniese, e che sarebbe stata trasmessa di qui a tutta la tradizione occidentale, quell’opposizione tra ‘europei’ e ‘orientali’, tra oriente e occidente, tra civiltà e barbarie, che ancora oggi, purtroppo, segna a volte i nostri immaginari culturali. 

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