Marco Tullio Cicerone era nato in un sobborgo del municipio di Arpino, il 3 gennaio del 106 a.C. La sua era una famiglia benestante, ma equestre. Il cognomen di Cicero, “cece”, derivava dal soprannome di un antenato, che aveva sul naso un foruncolo a forma di cece. Lui e suo fratello Quinto avevano rivelato subito spiccate doti di studio, avevano imparato il greco, e si erano avviati alla carriera forense. Marco aveva frequentato la scuola oratoria di Lucio Licinio Crasso, padre del Crasso più famoso. Qui aveva stretto amicizia con un altro giovane, Tito Pomponio, con il quale intesserà un epistolario intenso per tutta la vita. Aveva iniziato anche a scrivere poesie e a tradurre in latino Omero e il poemetto astronomico di Arato I fenomeni. Tra il 90 e l’88 a.C. aveva avuto anche un’esperienza militare, al seguito di Silla, nel bellum sociale: ma se ne era presto allontanato, perché la sue passioni erano l’oratoria, lo studio e la politica.

A 25 anni, nell’80 a.C., aveva condotto la sua prima orazione importante, in una causa di parricidio intentata ad un giovane di Amelia, Quinto Roscio, da un potente liberto di Silla. Cicerone, senza farsi intimorire dal contendente, aveva smascherato le trame del liberto e aveva vinto la causa. Questo episodio aveva iniziato a renderlo abbastanza noto nell’urbe. 

Tra il 79 e il 77 a.C. aveva compiuto un lungo viaggio in Grecia, insieme all’amico Pomponio, che lì si era già stabilito, e perciò aveva preso il soprannome di “Attico”: aveva conosciuto filosofi e retori e aveva perfezionato il suo stile a Rodi, trovando, come egli stesso affermò, “una via di mezzo” tra l’accesa retorica dello stile asiano e l’asciutta concisione dello stile atticista.

Nel I sec. a.C. si erano ormai definite le due correnti stilistiche che furono proprie di tutta la retorica antica. La prima, e più antica, detta “atticismo”, era caratterizzata inizialmente dalla scelta di termini ‘puri’ del dialetto attico di V sec. a.C., in opposizione a termini del dialetto ionico parlato sulle coste dell’Asia minore (di qui, appunto, “asianesimo”). Il modello di riferimento era l’oratore attico Lisia: proprio dal modello derivò, sempre più, agli ‘attici’ un esempio anche di stile semplice, con frasi parallele e coordinate, periodi poco complessi. Tutto ciò era in opposizione ad altri grandi autori di IV secolo, primo fra tutti Demostene, che erano caratterizzati da periodi lunghi e difficili, con salti logici e sintassi complessa. Intorno al III sec. a.C. nelle scuole di retorica ellenistiche questo modello di stile complesso prese appunto il nome di asianesimo, e ‘i due stili’ si contrapposero per tutta l’antichità. Cicerone, che racconta le vicende di questa storia della retorica antica in diverse sue opere, volle proporre uno stile che, a suo giudizio, cogliesse il meglio dell’uno e l’altro indirizzo retorico, e che definì “rodiese” (appunto dalla sua esperienza nell’isola di Rodi). In realtà, il vero modello di Cicerone è un altro grande retore ateniese del V-IV sec. a.C., Isocrate, di cui Cicerone imita sia l’ampio periodare ipotattico ma razionale, sia la propensione a rielaborare più volte, in periodi successivi, un medesimo tema. 

Tornato a Roma, nel 76 a.C., Cicerone si era candidato alla prima carica del cursus honorum, la questura, ottenendola. Era dunque stato inviato nel 75 in Sicilia, a Lilibeo (attuale Marsala), ove si era comportato con giustizia e benevolenza nei confronti della popolazione. Era stato proprio questo il precedente che aveva motivato i rappresentanti delle cittadine siciliane, di lì a due anni, a chiedergli di assumere l’incarico di difenderli in un processo di corruzione che si annunciava importantissimo: quello contro Gaio Licinio Verre, che era stato propretore dell’isola per ben tre anni, dal 73 al 71 a.C.. Il fatto era già di per sé strano: Verre, in realtà, personaggio spregiudicato e corrotto, dedito ai piaceri e ai banchetti, avido di opere d’arte che aveva rubato nei templi siciliani per adornarvi le sue ville private, aveva inviato regali e doni, più o meno leciti, a diversi senatori di Roma, che gli avevano rinnovato l’incarico e lo avevano ‘protetto’ nonostante le proteste dei siciliani. Ma nel 71 a.C. Verre aveva oltrepassato il limite, condannando a morte persino cittadini romani. Quindi i Siciliani lo avevano citato in giudizio. Così, nel cruciale anno 70 a.C., si svolge il processo, a Roma.

Per difendersi, Verre chiama il principe del foro di quei tempi, Quinto Ortensio Ortalo, influente personaggio e amico della maggior parte dei senatori corrotti. Ma Cicerone, per tutto l’anno precedente, ha girato la Sicilia in lungo e in largo, raccogliendo testimonianze e prove schiaccianti contro l’imputato. I senatori collusi con Verre, tuttavia, giocano l’arma di ritardare il processo. Per molti mesi rinviano le udienze, sperando in un calo dell’attenzione ‘mediatica’ che si era concentrata sull’evento. A luglio giocano un’altra carta: riescono a far eleggere per il consolato del 69 a.C. proprio Quinto Ortensio, il difensore di Verre: Cicerone, dunque, se la dovrebbe vedere addirittura con il consul designatus. Accanto ad Ortalo è eletto un altro grande ‘protettore’ di Verre: Quinto Cecilio Metello. Anche Cicerone, nel frattempo, è risultato eletto edile per l’anno successivo. Le macchinazioni dei senatori non riescono, però, a bloccare ancora il processo: alla fine di agosto del 70 a.C. si riunisce il tribunale. Cicerone, con una tattica a sorpresa, invece di pronunciare un proprio discorso, fa parlare per nove giorni consecutivi i testimoni siciliani che ha chiamato dall’isola. Ortensio, spiazzato, rinuncia ad interrogare così scomodi testimoni, mentre Verre si finge malato per non assistere alle udienze. Il decimo giorno, a seduta iniziata, arriva la notizia che Verre si è ritirato in esilio volontario a Marsiglia. I giudici sono ‘costretti’ a decretare la condanna dell’ex governatore, e i siciliani esultano. Cicerone, senza neanche aver pronunciato un vero e proprio discorso, ha sconfitto Ortensio. I discorsi, tuttavia, Cicerone li ha scritti: li pubblicherà, in ben cinque libri, sempre in quell’anno, per dare a tutti testimonianza del lavoro svolto, ma anche della sua abilità retorica, per cui le cosiddette Verrine restano uno dei capolavori ciceroniani. 

Cicerone, con questo processo, è divenuto il paladino degli equites, ma anche il difensore dell’integrità dei senatori non corrotti, contro chi infanga la dignitas della più alta istituzione romana: così in molti a Roma incominciano a vedere quell’homo novus come una risorsa per la respublica.

Il destino di Cicerone si incrocia sempre di più con quello di Pompeo, a cominciare da una vicenda che, come quella della rivolta degli schiavi del 73-71 a.C., aveva assunto proporzioni allarmanti. 

Noi moderni, anche per influenza dei media e del cinema, siamo abituati a vedere nei ‘pirati’ un fenomeno che appartiene alla storia moderna, nato dopo la conquista delle Americhe, riguardante soprattutto i grandi stati imperialisti del tempo: Spagna, Portogallo, Inghilterra e Olanda; siamo abituati a vedere nei pirati figure leggendarie di ergastolani fuggiti che in confraternite di base in porti segreti si lanciano all’arrembaggio di navi commerciali. Certamente, tra seicento e settecento, la situazione fu questa. Ma la pirateria, in forme non tanto dissimili da quelle dell’età moderna, esistette e prosperò anche nel mondo antico. La ‘razzia’, anzi, fu secondo alcuni storici e antropologi una delle più antiche forme di ‘commercio’ e di scambio di merci, nonché di donne, che venivano rapite e date in spose o in schiave in altre terre. Già Odisseo, nei poemi omerici, ricorda sue imprese di pirateria con orgoglio. In età ellenistica le flotte dei sovrani tolemaici e seleucidi avevano ingaggiato spesso vere e proprie campagne militari contro i pirati, ma senza successo. La maggior parte delle ‘basi’ di queste flotte di predoni erano a Creta e nella costa dell’Asia minore, in Cilicia. Di qui, pur nel cosiddetto mare nostrum, i pirati intercettavano da oltre un secolo le navi romane, con gravi danni soprattutto ai commerci degli equites. La situazione era divenuta ormai insostenibile, e il senato fu costretto a prendere seri provvedimenti.

Aulo Gabinio, fedelissimo di Pompeo, propose di affidare al giovane, appena ex console, l’incarico di debellare una volta per tutte i pirati del Mediterraneo, con una flotta immensa di oltre 500 navi. Cicerone si schierò apertamente con Pompeo. Il senato approvò il decreto e Pompeo, in pochi mesi di quello stesso 67 a.C., ottenne una dopo l’altra schiaccianti vittorie contro le basi pirate, da Creta alla Cilicia, mandando a morte decine di migliaia di pirati. Tornato a Roma, poté dire di avere per sempre eliminato quella piaga: era l’eroe del momento.

Nel frattempo si erano riaccese le ostilità con Mitridate VI, re del Ponto, che lo stesso Pompeo, come si ricorderà, aveva costretto alla resa ormai quindici anni prima. Mitridate, spalleggiato dal cugino Tigrane re dell’Armenia, aveva messo in seria difficoltà l’esercito inviato contro di lui e guidato dal proconsole Lucio Licinio Lucullo. Lucullo, in effetti, personaggio più dedito ai banchetti che agli accampamenti militari, stava passando alla storia più per aver fatto conoscere a Roma le ciliegie, per la prima volta importate dall’Armenia, che per le sue doti nella campagna militare.

Un altro fedele pompeiano, Gaio Manilio, propose dunque nei primi mesi del 66 a.C. un altro decreto al senato, per affidare a Pompeo un nuovo esercito e risolvere la questione mitridatica. Cicerone scese in campo in grande stile, con una orazione Pro lege Manilia de imperio Gnei Pompei, in favore della proposta.

All’inizio dell’estate del 66 a.C. Pompeo, al comando di un esercito imponente, iniziò le campagne in Oriente, che sarebbero durate ben quattro anni, e si sarebbero concluse con la vittoria completa dei Romani e l’annessione come provinciae di Ponto, Armenia e l’ultima parte della Siria, e il controllo totale dell’Asia minore. Per quattro anni Pompeo sarebbe stato lontano da Roma ma, per ringraziare Cicerone dell’impegno speso in favore di questo incarico, invitò i senatori a considerare la possibilità di presentare proprio l’homo novus di Arpino alle elezioni per uno dei prossimi consolati. E così fu.

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