Gneo Pompeo nasce nel 106 a.C.: è figlio di un ricco proprietario terriero del Piceno, Gneo Pompeo Strabone, che era stato uno dei generali più vicini a Silla nella guerra sociale. Già in quelle circostanze il giovane Pompeo, fin da piccolo più propenso all’arte militare che alla carriera retorica, aveva accompagnato il padre in missione. Nell’89 a.C., appena diciassettenne, aveva seguito il padre nell’assedio di un’altra cittadina ribelle, Ascoli, e aveva partecipato alle operazioni vittoriose. Per il suo coraggio, e probabilmente più per la somiglianza fisica del volto, i suoi commilitoni lo chiamano già all’epoca l’“Alessandro romano”, in riferimento, appunto, ad Alessandro Magno.

La famiglia dei Pompei, durante le aspre lotte tra populares e optimates, cerca di tenere una posizione di equilibrio. Il giovane Pompeo, anzi, sembra propendere più per la parte popolare. Arriva a Roma, frequenta gli ambienti più radicali, conosce Cinna. Ma è proprio la rivalità con il potente console dei populares, sembra, a far compiere a Pompeo un cambiamento radicale di posizione. Pompeo decide di schierarsi con gli optimates e concepisce un piano spregiudicato per presentarsi in modo favorevole a Silla, alle prese con la campagna d’Oriente. Per tutto l’84 a.C., nei territori piceni dei possedimenti paterni, Pompeo chiama alle armi migliaia di clientes e di affiliati alla sua gens. Mette insieme un’intera legione e, quando Silla giunge a Brindisi, trova davanti a sé Pompeo, che gli si offre come braccio destro per la marcia su Roma, presentandogli quello che di fatto è un vero e proprio esercito personale. Pompeo saluta Silla imperator e tra i due nasce una reciproca stima. Silla, tuttavia, chiede a Pompeo di non proseguire con lui verso l’urbe. Gli riserva un compito delicato: raggiungere l’Etruria e contrastare i preparativi di Papirio Carbone in vista dello scontro finale. 

Per tutto l’83 a.C. Pompeo ottiene grandi risultati in Italia centrale: sconfigge più volte Carbone in Etruria, torna sull’Adriatico e occupa Senigallia conduce un agguato presso Spoleto dove sbaraglia un contingente mariano ben più numeroso del suo. 

Alla fine dell’estate dell’82 a.C. lo scontro decisivo con le truppe mariane in Etruria avviene a Chiusi: Carbone però fugge in Africa e Pompeo ha buon gioco nel portare a termine una schiacciante vittoria. Silla, nel frattempo, ha raggiunto Roma e si prepara allo scontro decisivo, quello di Porta Collina. Pompeo vorrebbe partecipare, ma non fa in tempo a raggiungere l’urbe per la fulminea azione di Silla. Nello scontro, davanti alle mura romane, cade, tra l’altro, suo padre, Gneo Pompeo Strabone. Silla, tuttavia, è ormai padrone di Roma: la scelta politica di Pompeo è stata vincente. Silla, dittatore sine tempore, entra anche nelle faccende private dei suoi generali. Faccende che, come è noto, non sono mai così private, visto che matrimoni e adozioni, a Roma, appartengono più alla rete dei legami politici ed economici che a quella degli affetti. Così Silla chiede a Pompeo di divorziare dalla giovane moglie che ha sposato appena ventenne, Antistia, figlia di un famoso pretore e giureconsulto, Antistio Labeone, per sposare la figliastra Emilia, la figlia che Cecilia Metella, sua seconda moglie, aveva avuto da Emilio Scauro. Questa Emilia era probabilmente stata ‘disonorata’ ed incinta: Silla voleva dunque rimediare al dedecus e Pompeo la sposa. La vicenda, tuttavia, si tinge di tragico: la madre di Antistia si suicida per il dolore e così, poco dopo, la figlia. Emilia, di lì a sette mesi, muore di parto, e con lei il piccolo appena nato. 

Pompeo, su ordine di Silla, è intanto partito per la Sicilia: a lui il dittatore ha affidato sei legioni e 120 navi per stroncare la resistenza di Papirio Carbone, arroccatosi nell’isola, da dove blocca i rifornimenti di grano per Roma. In una rapida azione navale nelle acque di Pantelleria, Pompeo, allora venticinquenne, sorprende l’esperto Carbone, lo cattura, e dopo un processo sommario lo fa giustiziare. La Sicilia è recuperata da Silla, che affida subito a Pompeo un altro incarico.

Nella provincia d’Africa, infatti, si era rifugiato un altro capo dei mariani in esilio: Gneo Domizio Enobarbo, tra l’altro sposato con una figlia di Cinna. Anche questa famiglia diverrà di lì a poco famosa: si tratta infatti di un trisavolo di Nerone. Pompeo raggiunge l’accampamento di Enobarbo nei pressi di Cartagine. La fortuna vuole che, nello scontro decisivo, una tempesta si abbatta con vento contrario ai populares: Pompeo attacca proprio in quel momento, massacrando l’esercito avversario. Lo stesso Enobarbo trova la morte e i soldati salutano il giovane Pompeo col titolo di imperator e di Magnus. Pompeo scrive allora una lettera a Silla chiedendogli, forse con eccessivo orgoglio, se non sia giunto il momento di celebrare un trionfo per le sue vittorie: gli parla di mimi, spettacoli, elefanti e donazioni. Si spinge a dire, quasi provocatoriamente, nei confronti del dittatore, che “sono più le persone che adorano il sole quando nasce, di quelle che lo onorano quando tramonta”. Silla, dicono le fonti, rimane piuttosto freddo. Comincia forse ad essere geloso di un giovane che potrebbe metterlo in ombra. Dunque fa aspettare a Pompeo molti mesi e gli concede di celebrare i suoi trionfi solo insieme a quelli degli altri generali che lo hanno aiutato nelle campagne contro i Mariani, e in tono di gran lunga minore.  Pompeo, costretto ad accettare, tornato nel Piceno si dedica a consolidare la sua rete di legami personali politici e culturali, soprattutto con coloro che sarebbero diventati i suoi fedelissimi: Tito Labieno, Lucio Afranio, Aulo Gabinio, Marco Petreio e Marco Terenzio Varrone.

Probabilmente nel 79 a.C. Pompeo contrae il suo terzo matrimonio, con una diciassettenne abbastanza spregiudicata, Muzia, figlia del pontefice Quinto Muzio Scevola. Muzia era stata sposata, seppur per pochi mesi, niente di meno che con Gaio Mario il giovane, prima del suo assassinio. A Pompeo, in quattro anni, darà tre figli: Gneo, Sesto e Pompea. Silla, proprio in quel 79 a.C., si ritirerà a vita privata. Ma il distacco di Pompeo si consuma durante le elezioni dei nuovi consoli per il 78 a.C. A dispetto della candidatura voluta da Silla, dell’anziano Lutazio Catulo, Pompeo appoggia l’emergente Marco Emilio Lepido. Entrambi, tuttavia, vengono eletti.

Nel 78 a.C. Silla muore, ed Emilio Lepido mostra subito la sua avversione alle politiche sillane. Propone di attenuare le restrizioni ai tribuni della plebe e di restaurare la riforma dei comizi centuriati voluta da Cinna. A questo punto, tuttavia, avvalendosi della costituzione sillana, ancora in vigore, il collega Lutazio Catulo, con l’appoggio del senato, lo dichiara decaduto e nemico pubblico. Emilio Lepido si rifugia in Etruria, seguito dal fedele amico Marco Giunio Bruto (il padre di uno dei congiurati di Cesare). Bruto si attesta in Gallia Cisalpina, deciso a scendere lungo l’Adriatico e prendere Roma alle spalle.

Pompeo, a questo punto, come aveva fatto in occasione della guerra sociale, riallestisce due legioni ‘private’ di clientes e fidati nel Piceno, marcia a tappe forzate verso la Gallia e blocca Bruto sulla via Emilia, all’altezza di Modena. Qui si consuma uno scontro durissimo, in cui Pompeo riporta una vittoria schiacciante. Bruto, in un primo momento ‘graziato’, è di lì a pochi giorni fatto uccidere da un sicario di Pompeo. Contemporaneamente, sul finire del 78 a.C., Lutazio Catulo sconfigge Emilio Lepido, ormai alle porte di Roma. La situazione a favore degli optimates sembra dunque ristabilita, ma un ultimo focolaio di rivoltosi è rimasto, pur lontano dall’urbe: quello di Quinto Sertorio in Iberia. 

Sertorio, sabino di Norcia, e figlio di una cugina di Gaio Mario, era l’unica grande personalità dei populares rimasto ancora vivo e attivo sul panorama politico e militare. Dopo Porta Collina si era rifugiato in Africa: qui aveva radunato un esercito di tremila volontari pronti a tutto ed aveva tenuto testa alle tribù berbere della Mauritania. Dall’Africa aveva varcato le colonne d’Ercole ed era giunto in Lusitania (attuale Portogallo), ove era stato accolto con entusiasmo, anche perché ritenuto liberatore dai saccheggi dei Mauritani. Qui, in Lusitania, Sertorio aveva realizzato, in meno di due anni, un vero e proprio regno personale, con un senato composto, democraticamente, da romani esiliati e lusitani. Capo assoluto, avvolto per certi aspetti dalla leggenda e da un alone di invincibilità, aveva tenuto testa agli eserciti romani inviati per eliminarlo, da ultimo quello di Quinto Cecilio Metello Pio. 

Pompeo, di ritorno dalla vittoriosa campagna ‘privata’ contro Bruto, era dunque accampato, con le sue due legioni, alle porte di Roma. Reclamava un ruolo politico ufficiale, per andare a sconfiggere l’ultimo nemico del senato e degli optimates. Inizialmente Lutazio Catulo era esitante, ma alla fine il senato, con una legge speciale, proclamò proconsole Pompeo (che non era mai stato console), e gli affidò un enorme esercito di 120000 uomini. 

Nella primavera del 77 a.C., all’età di 28 anni, Pompeo partì per l’Iberia, via terra. Lo seguivano tutti i suoi migliori generali: Varrone, Petreio, Gabinio e Afranio. Pompeo attraversò le Alpi, si scontrò con i Galli e i Liguri, avanzò fino ai Pirenei e nella primavera dell’anno successivo, il 76 a.C., li attraversò lungo il ripidissimo valico del Pertus. Puntò dunque ad attraversare l’Ebro, ma i luogotenenti di Sertorio lo bloccarono a Sud, nei pressi di Valencia: qui Pompeo fu duramente sconfitto e dovette ritirare verso l’interno. Poche settimane più tardi tentò di nuovo la sorte, questa volta scontrandosi direttamente con Sertorio. Nella battaglia del fiume Sucrone i due si fronteggiarono a lungo e finalmente ingaggiarono uno scontro diretto, sanguinosissismo. Pompeo, che non volle aspettare l’arrivo delle legioni di Metello, fu ferito ad una coscia, ma riuscì a mettersi in salvo. All’arrivo di Metello, dopo tre giorni ininterrotti di combattimenti, le sorti della battaglia si risollevarono, ma i Romani non riuscirono a sfondare la linea dell’Ebro. Pompeo rimarrà impantanato in Hispania per altri quattro anni, finché il Senato, su suo suggerimento, non si deciderà a compiere un gesto che Roma aveva da sempre considerato indegno dell’arte militare: mettere una taglia su un nemico. A chi avesse ucciso Sertorio, romano o non, sarebbe stata concessa impunità e enormi ricchezze. Il traditore non si farà attendere, e al principio del 71 a.C. Sertorio cadrà vittima di un tranello. Solo in questo modo Roma sarebbe venuta a capo di una situazione che sarebbe rimasta, in ogni caso, una spina nel fianco nell’orgoglio di Pompeo. 

Nella primavera del 71 a.C., dunque, Pompeo può fare finalmente ritorno a Roma, e in tutta fretta. Nel frattempo, infatti, un nuovo gravissimo problema si è profilato all’orizzonte: una generalizzata ribellione degli schiavi impegnati nelle scuole di gladiatori.

Forme di spettacolo che prevedevano combattimenti militari erano antichissime, a Roma: ne abbiamo testimoniate già in età monarchica. Ad affrontarsi, in epoca arcaica, erano però cittadini liberi, che lo facevano per professione. Gli scontri erano cruenti, certamente, ma solo in rarissimi casi si concludevano con la morte di uno dei due combattenti, e più per incidente. Con la conquista del Mediterraneo, e l’arrivo di enormi masse di schiavi, anche questo aspetto si era andato via via trasformando. Per comodità, e per spettacolarità, cominciarono ad essere organizzate vere e proprie ‘scuole’ di combattenti, detti gladiatores perché muniti, essenzialmente, della corta spada tipica romana, il gladium. I gladiatori erano schiavi, o condannati, ma addestrati in modo paramilitare, nei ludi, “scuole/caserme”, da istruttori senza scrupoli (lanistae). Le loro condizioni di vita erano tristissime: rinchiusi in celle di notte e costretti a combattere di giorno. La loro situazione era certamente migliore di quella degli schiavi che lavoravano nei cantieri o nelle miniere, legati ai piedi e sfamati a pane ed acqua. Ma in generale, dopo un secolo di economia schiavile ad alta intensità, l’Italia era divenuta una polveriera molto pericolosa: si calcola, per difetto, che in Italia vi potessero essere, all’epoca, tre o quattro milioni di schiavi su meno di dieci milioni di abitanti. 

La rivolta era partita, alla fine della primavera del 73 a.C., dal ludus gladiatorio di Lentulo, a Capua, uno dei più famosi. A capeggiarla era stato un tracio, di nobile origine, sconfitto e imprigionato dai Romani di Pompeo durante la guerra mitridatica, di nome  Spartaco. Era sposato con un’indovina ed era divenuto in pochi anni l’idolo delle folle che accorrevano a vederlo scontrarsi negli spettacoli. Insieme a lui un germano, Enomao, e un gallo, Crisso, guidavano la rivolta che, estesasi a macchia d’olio, aveva costretto Roma alle armi: gli schiavi fuggiti dalle scuole gladiatorie, e altri unitisi a loro, erano divenuti ormai diverse migliaia. Dopo due anni di schermaglie mai condotte a buon fine, Roma si era decisa a inviare un esercito di ben otto legioni al comando di un personaggio che, per la prima volta, entra in scena da protagonista, pur non avendo ancora mai ricoperto la carica di console: Marco Licinio Crasso.

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