Tornato a Roma, Ottaviano fa approvare una legge che affida al senato il compito di indicare un praefectus per governare l’Egitto: questo paese diviene una sorta di ‘proprietà’ diretta del capo politico di Roma, che lo impiegherà come risorsa di grano e di ricchezza. 

Ottaviano, a 34 anni, è ormai il padrone della situazione. Tutti i suoi avversari sono morti o esiliati. Il senato gli è fedele. Ma il problema più grande consiste nella regolamentazione di un potere così grande in quella che è ancora, formalmente, una respublica. Ottaviano rifiuta più volte il titolo di dictator, ma anche quello di consul perpetuus. Preferisce farsi eleggere console di anno in anno. 

Nel 27 a.C., tuttavia, in aggiunta ad una deliberazione che gli assegna proprio il diritto di essere rinnovato console di anno in anno, gli viene decretata la tribunicia potestas perpetua: alla carica esecutiva, dunque, si somma la possibilità di intervenire con il veto su qualsiasi decisione del senato o dei comizi, nonché l’inviolabilità tipica dei tribuni. Emilio Lepido, nel frattempo, è morto: a Ottaviano spetta così anche il titolo di pontifex maximus. Tutti gli ambiti del potere sono in tal modo nelle sue mani. È proclamato princeps senatus e gli viene assegnato con una legge speciale l’imperium di nominare i governatori delle province e di assicurare i confini, e la pace, dello stato: come a un generale vittorioso, gli è riservato l’appellativo di imperator. In una seduta del senato dello stesso 27 a.C. alcuni fedelissimi propongono ad Ottaviano di assumere l’appellativo di Romulus, come secondo fondatore della patria. Ottaviano rifiuta, perché quel nome può appartenere solo al primo conditor urbis. È Lucio Munazio Planco, anziano amico di Giulio Cesare, e combattente con lui nelle Gallie, a proporre un nuovo titolo, che Ottaviano accetta: Augustus. Augusto, l’ “aumentato”, “colui il cui potere è stato accresciuto”, suona ad Ottaviano, notoriamente superstizioso, di ottimo auspicio. Nelle titolature ufficiali, da quel momento, si definisce Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto, consul, tribunus e pontifex.

Augusto, che tuttavia preferisce farsi chiamare princeps piuttosto che imperator, inizia a governare, di fatto, come un sovrano, ma nel consenso generale. Altri consoli, tribuni, pretori e propretori vengono eletti accanto a lui; i comizi, anche se meno spesso, vengono convocati, ma l’ultima parola, di fatto, spetta sempre a lui. Dal 27 a.C. al 14 d.C., per 41 anni, governa Roma in modo incontrastato: se a questi anni si aggiungono quelli in cui era stato comunque il più influente politico dell’urbe, tra il 40 e il 27, si arriva ad oltre 50 anni: il più longevo potere di una potenza importante in tutto il mondo antico.  Augusto dà il proprio nome ad un’intera età, uno dei periodi culturali ed economici più floridi di Roma antica; fonda, anche se non direttamente, perché non avrà mai eredi maschi, una dinastia che continuerà ad avere il potere per altri cinquant’anni dopo di lui. 

Quello che possiamo chiamare il suo “principato”, con la definizione già in uso pochi anni dopo la sua morte, è caratterizzato da un periodo di pace e di benessere. Non intraprende mai campagne militari in prima persona. Il fedele Agrippa è inviato nei territori germanici a consolidare i confini. Qui, il 9 d.C., tre legioni romane al comando di Quintilio Varo subiscono una pesante sconfitta in un agguato guidato dal capo germanico Arminio. Augusto, all’epoca già anziano, piange per mesi quella sconfitta, ma non invia spedizioni punitive. Preferisce stipulare con i popoli orientali dei trattati di pace, a buone condizioni.  La ricchezza di fonti e testimonianze su di lui e su questo periodo di Roma consentono di approfondire molti aspetti del mondo romano. Ma anche della personalità del princeps.

Augusto amava parlare per proverbi e sentenze: uno dei suoi generi letterari preferiti era il mimo, in cui abbondavano le sententiae di carattere morale, ma anche caustico. Gli fu sempre riconosciuta, come nota dominante del suo carattere, la clemenza e la moderazione. Tuttavia, gli storici più accorti hanno ben messo in luce tutta una serie di episodi dai quali emerge anche una sua spietata freddezza calcolatrice: eliminazioni dirette o indirette di avversari politici, ma anche di personalità scomode, e censure varie.

Abitò, per tutta la vita, su una casa del Palatino, non grande in realtà; non la impiegò mai, però, per riunioni politiche ufficiali, rispettando la sacralità e dignità del senato. In casa collezionava oggetti di antiquariato, come armi antichissime, ma anche scheletri di animali strani. Davanti l’ingresso principale aveva personalmente piantato un albero di alloro: la credenza popolare voleva che questa pianta tenesse lontani i fulmini. Augusto infatti era particolarmente superstizioso: era pieno di amuleti, si faceva interpretare ogni sogno che ricordasse, evitava la presenza di nani e zoppi, perché portavano malaugurio. In genere insonne, scriveva fino a tarda notte, e non era solito alzarsi prima di una cert’ora. Di fatto, passò la vita tra la casa del Palatino, il senato e il Foro: un orizzonte di un paio di chilometri, interrotto solo da brevi periodi di riposo nella villa di famiglia di Nola. 

La sua attività urbana fu ben più importante di quella estera. Amava dire, in vecchiaia, di aver trovato una Roma di mattoni e averla lasciata di marmo. In effetti, durante il suo principato, l’urbe si trasformò in un grande cantiere. 

Accanto all’antico Foro, e prima del nuovo foro che Cesare aveva iniziato a far costruire sulle pendici del Palatino, Augusto fece demolire parte della Suburra per costruire un nuovo grande foro (l’area dell’attuale via dei fori imperiali), con al centro il tempio di Marte Ultore: qui, in un porticato semicircolare, che si allargava con due braccia sulla piazza (e che servì da spunto a Michelangelo per ideare il colonnato di S. Pietro), si alzavano ventiquattro statue di eroi storici e leggendari di Roma, a cominciare da Enea, considerato il pater della gens Iulia. Al centro, su una quadriga di bronzo e oro, era raffigurato Cesare divinizzato, con accanto Marte, capostipite dei Romani. Particolarmente amante del teatro, Augusto iniziò la costruzione di un anfiteatro, lungo l’ansa del Tevere di fronte all’isola Tiberina. Accanto, realizzò un portico per mercati e affari, dedicandolo alla sorella Ottavia, che morirà nell’11 a.C. Lungo tutto il tratto urbano del Tevere, infine, fece edificare argini possenti, per evitare le piene. 

L’attività culturale e civile di Augusto segnò profondamente la vita romana. Il suo fu un richiamo costante al mos maiorum, alle tradizioni della più genuina cultura romano-italica: feste, celebrazioni tradizionali di antichi dèi di tutti i popoli italici vennero ripristinate e incentivate. Al contrario, i culti orientali furono combattuti, a volte persino con la forza: le fonti ricordano un rogo pubblico di libri di profezie orientali, voluto da Augusto nel Foro. Furono ripristinati soprattutto i ludi, i giochi pubblici che incentivavano la politica del consenso, abilmente governata da Mecenate. Numerosissime furono le disposizioni in favore della plebe urbana, a cominciare dalle distribuzioni di grano e di denari, ma anche dalla fondazione di ventotto nuove colonie italiche. Augusto spinse gli ex militari e molti nullatenenti, attraverso l’assegnazione di terre, a tornare all’agricoltura e all’allevamento. Mecenate chiese a Virgilio, ormai entrato nel circolo dei poeti augustei, di comporre un poema dedicato ai lavori dei campi e alla cura del bestiame: le Georgiche.

La politica del consenso era alimentata anche dal mito di una Roma civilizzatrice e dal sorgere di un culto della personalità di Augusto. Terminate le Georgiche, Mecenate e il princeps chiesero a Orazio di comporre un carmen saeculare che avrebbe dovuto festeggiare la rinascita di Roma, e che fu cantato da un coro di giovani il 3 giugno del 17 a.C. I due chiesero poi a Virgilio di comporre un poema per celebrare le gesta di Ottaviano e la dinastia giulia: Virgilio comporrà l’Eneide, riservando in realtà, all’elogio di Augusto e dei suoi antenati storici, solo un paio di centinaia di versi su oltre dodicimila del poema, e dedicando il suo maggior impegno di poeta a sottolineare, nel mito, l’angoscia e la tragicità della guerra e della violenza nel mondo, proiettati nella vicenda di Enea che dalla patria in rovina giunge in Italia.

L’opera improntata al mos maiorum fu condotta, da Augusto, anche a livello della moralità pubblica: da lui furono promulgate leggi contro il lusso e contro l’adulterio; furono espulsi dal senato cittadini ritenuti indegni. La stessa sua unica figlia, Giulia, fu esiliata da Roma e costretta a ritirarsi in una villa a Ventotene. 

Dal punto di vista della vita privata, in effetti, Augusto non riuscì ad avere fortuna e gioia. A cominciare dai figli. Da Livia, come si è detto, non era riuscito ad avere bambini. Passò così tutta la vita a intessere matrimoni tra i suoi familiari, vicini e lontani, per cercare un erede che potesse continuare la sua opera politica e civile, in questo aiutato, fino alla morte, dalla sorella Ottavia, che nel frattempo aveva cresciuto i figli avuti da Marcello, le due figlie avute da Antonio, nonché i quattro figli avuti da Antonio prima con Fulvia e poi con Cleopatra. 

Proprio a sua figlia Giulia Augusto aveva fatto sposare, all’età di 14 anni, nel 25 a.C., il diciassettenne cugino carnale Marcello, figlio di Ottavia. Il matrimonio, celebrato con grande fasto in tutta Roma, era però stato sfortunatissimo. Appena due anni dopo, infatti, Marcello, diciannovenne, si era misteriosamente ammalato ed era morto. A lui Virgilio avrebbe dedicato alcuni dei versi più struggenti di tutta l’Eneide.

Giulia e Marcello non avevano fatto in tempo ad avere figli e Augusto fu per ben due anni in cerca di un altro sposo per la figlia. Alla fine l’idea migliore gli parve quella di contare sul suo più fedele amico e compagno: Agrippa. Costui, che aveva 25 anni più di Giulia, era in realtà già sposato con la prima figlia di Ottavia, Marcella maggiore, dalla quale aveva avuto due bambine. Augusto lo fece divorziare da Marcella (sua nipote) e il 21 a.C. celebrò egli stesso le nozze tra Agrippa e Giulia. I due si trasferirono in una villa lungo il Tevere (forse l’attuale palazzo della Farnesina), edificata per l’occasione. Giulia darà ad Agrippa cinque figli: tre maschi e due femmine. Ma la sorte avversa sembra accanirsi sulla famiglia di Augusto. I primi due nati di Agrippa e Giulia, Gaio e Lucio, muoiono uno dopo l’altro, ancora bambini. Il terzogenito, Agrippa, rivela presto una disabilità che rende impossibile una sua successione al potere. La quartogenita dei due, inoltre, Giulia minore, mostra fin da adolescente un temperamento viziato e trasgressivo: Augusto dovrà esiliare anche lei, come la madre, lontano da Roma, per evitare scandali. L’unica figlia che sembra incarnare le speranze del nonno, nata nel 14 a.C., colta, intelligente, coraggiosa e decisa, sarà Agrippina, che Augusto farà sposare con il figlio del suo figliastro Druso, avuto da Livia con il primo marito Tiberio Claudio Nerone.

La lunga vita di Augusto, lunghissima per quei tempi, lo mise di fronte, oltre che a queste morti premature, alla scomparsa di tutti i suoi amici e compagni: uno dopo l’altro morirono Agrippa, Mecenate, Virgilio, Orazio. Solo Livia fu con lui fino all’ultimo giorno.  Ammalatosi all’inizio dell’estate del 14 d.C., Augusto volle raggiungere la villa di Nola, dove erano morti suo padre e i suoi avi. Aggravatosi, sentì avvicinarsi la morte; la mattina del 19 agosto del 14 d.C. chiamò la moglie Livia e gli amici, si fece portare uno specchio, si sistemò i capelli e il volto, indossò la migliore stola, e chiese a tutti se avesse recitato bene quel grande mimo che è la vita umana. Quindi li congedò e rimase solo con Livia. Dopo poche ore ebbe un sussulto, si voltò verso la moglie e le chiese di vivere sempre nel ricordo del loro connubium. E morì.

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