Gaio Cesare era il terzo figlio di Agrippina maggiore e Germanico. Era nato nell’agosto del 12 nella casa di Anzio della famiglia giulia. Fino ai sette anni aveva vissuto al seguito dei genitori, tra la Germania e l’Illirico, in accampamenti militari e caserme. Nel 19 aveva perso il padre, ed aveva seguito la madre a Capri, ove era stato cresciuto dalla nonna Antonia. Quando, a 21 anni, anche la madre era stata eliminata da Tiberio, aveva passato con il prozio gli ultimi anni del suo principato, “complice delle sue follie”, dirà l’avverso storico Tacito. Nel 33, ventunenne, aveva sposato la giovanissima Giunia Claudilla, nobile e lontana parente, appartenente alla gens Claudia, che era però morta di parto dopo appena un anno. Tutto ciò aveva probabilmente contribuito ad accentuare il carattere già eccentrico e violento di Caligola.

Forse era stato proprio lui ad accelerare la morte dell’imperatore, nel marzo del 37 d.C., per farsi riconoscere, ad appena venticinque anni, nuovo princeps di Roma. O, almeno, così era corsa voce.

Tra i suoi primi gesti Caligola riporta a Roma, risalendo il Tevere, le ceneri della madre Agrippina e del fratello, per seppellirli nell’Ara Pacis insieme a tutti i membri della famiglia. Grandi feste e largizioni pubbliche erano state organizzate, spettacoli del circo e banchetti. I condannati da Tiberio erano stati graziati, e per sei mesi l’urbe era stata in una continua festa. Il popolo aveva apprezzato, ma Caligola aveva mostrato il suo vero volto pochi mesi dopo. 

Come si ricorderà il figlio di Tiberio, Druso minore, era morto nel 23, lasciando due figli maschi gemelli, Tiberio e Germanico. Il secondo era morto a pochi anni, per un fatale incidente, sempre nel 23. Ma l’altro, detto Tiberio gemello, sembrava in buona salute, e aveva raggiunto i 19 anni. Sempre più geloso del cugino, Tiberio gemello aveva reclamato più volte di voler condividere il potere con Caligola. Quest’ultimo, nei primi mesi del 38, stanco di tante recriminazioni, lo fece eliminare accusandolo di tramare in una congiura e costringendolo al suicidio.

Proprio negli ultimi mesi del 37, peraltro, Caligola si era gravemente ammalato, dando segni di squilibrio mentale. Si diceva fosse guarito, ma da quel momento la sua personalità aveva mostrato ancora più durezza ed eccentricità. Vedovo ormai da cinque anni, aveva fatto divorziare da Lucio Calpurnio Pisone, nobile e colto rappresentante della nobilitas, la bellissima moglie Livia Orestilla, per sposarla il giorno stesso e ripudiarla dopo due settimane infliggendole l’esilio. Atteggiandosi a monarca orientale, aveva cominciato a farsi ritrarre e ad apparire in pubblico con le sorelle, presentate come mogli, Drusilla e Livilla. Le voci più maligne affermavano che, con loro, Caligola intrattenesse rapporti non solo d’affetto. Nel frattempo, ufficialmente, si era nuovamente sposato con un’altra bellissima nobildonna, anch’essa costretta al divorzio dal marito, Lollia Paolina. Dopo un anno, però, ripudiò anche lei, accusandola di non poter avere figli.

Aveva sentito parlare, intanto, di una giovanissima e bellissima ragazza: figlia di un nobile senatore, Messalla, e imparentata con i Claudi, aveva appena quattrodici anni, ma a Roma era già sulla bocca di tutti; il suo nome era Messalina. Caligola, invaghitosene, la chiamò a corte e, per approfittare della sua bellezza, la fece sposare con lo zio Claudio, fratello di Germanico, di trenta anni più grande, balbuziente, claudicante e introverso. Si diceva che i due figli avuti dalla quindicenne Messalina con il marito, un maschio e una femmina, non fossero in realtà di Claudio, ma proprio di Caligola.

La condotta privata sregolata di Caligola corrispondeva ad una sua politica spregiudicatamente assolutista.

Convinto che i tempi dell’equilibrio tra poteri delle famiglie senatorie e poteri del princeps fossero ormai superati, fervente ammiratore di Alessandro Magno e dei grandi sovrani orientali, Caligola provò a trasformare il potere lentamente e non costituzionalmente costruito da Augusto, e mantenuto da Tiberio, in potere assoluto. 

Pretese di essere onorato con epiteti divini, si fece ritrarre con diademi orientali, fece sostituire sue teste sulle statue degli dèi, e iniziò a far costruire, in tutto l’impero, templi in suo onore, favorendo culti sincretistici della sua personalità.

Spesso, per le vie di Roma, appariva vestito da Zeus su una quadriga d’oro lanciata in corsa. Sempre più di frequente, poi, il senato era oggetto di umiliazioni e sarcasmi. Una volta tutti i senatori furono svegliati di soprassalto per una riunione improvvisa e notturna: giunti nella curia, trovarono Caligola e, davanti a lui, un piatto con un enorme carpa. L’imperatore li aveva convocati per sapere come cucinarla. 

In un altro episodio famoso, Caligola fece il suo ingresso in senato con un cavallo e chiese di far largo per farlo accomodare sui banchi: lo aveva nominato nuovo senatore, perché più ubbidiente degli altri. 

Secondo Svetonio, autore delle biografie dei primi dodici imperatori, Caligola si esercitava allo specchio per assumere posture e espressioni del volto che potessero incutere paura. Il suo motto, desunto da un verso del tragediografo romano Accio, del I sec. a.C., era oderint, dum metuant: “mi odino pure, purché mi temano”. 

L’umiliazione più grande della classe senatoria arrivò con il divieto, per le famiglie gentilizie, di portare stemmi e segni delle gentes. 

Nella politica estera, tuttavia, Caligola consolidava i confini dell’impero. Una serie di alleanze con regni vassalli aveva reso sicuro l’oriente. In Germania, decine di legioni erano state assegnate ai confini di Reno e Danubio. Caligola in persona si era recato sulle coste della Manica e una tribù di Britanni aveva fatto atto di sottomissione. 

Nel frattempo, nel 39, si era sposato per la quarta volta, con una giovane che già era stata sua amante, Milonia Cesonia, pochi giorni prima che costei le desse finalmente una figlia, chiamata Giulia Drusilla.

Il suo tentativo di assolutizzazione dello stato raggiunse il culmine alla fine del successivo anno 40. Riunito il senato, Caligola proclamò che avrebbe, di lì a poco, trasferito la capitale ad Alessandria. Per i senatori era troppo: alcuni provarono a controbattere, ma furono eliminati in pochi giorni.

Furono, paradossalmente, proprio le guardie del corpo dell’imperatore, assolutamente contrarie ad abbandonare Roma, a decidere la sua fine. Il 25 gennaio del 41, mentre con la moglie e la bimba neonata attraversava, come di consueto, un corridoio che dal palazzo del Palatino conduceva ai giardini, fu bloccato dai pretoriani e massacrato con la sua famiglia. 

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