I primi anni del nuovo principato furono caratterizzati da moderazione e saggezza. Era certamente Agrippina a reggere le redini della politica, insieme a Seneca. Accanto a loro, una figura importantissima fu il nuovo prefetto del pretorio, un generale onesto e fedele: Sesto Afranio Burro. 

Tutte le fonti ricordano questi primi anni come un quinquennium felix. La corte di Roma si era riempita di intellettuali, filosofi, artisti e poeti. Seneca guidava il princeps ad incarnare il tipo del buon monarca. Nel frattempo, in oriente, Gneo Domizio Corbulone copriva di gloria gli eserciti di Roma, sconfiggendo Armeni e Parti ed estendendo i confini dell’impero. 

Non erano tutte luci quelle della corte neroniana, tuttavia. Appena ad un anno dall’assunzione del potere, Nerone – o Agrippina, o entrambi – decisero di eliminare l’ultimo discendente maschio dei Giulio-Claudi, il giovane Britannico. Fu avvelenato, anche lui, durante un banchetto. La versione ufficiale parlò di una fatale crisi epilettica, disturbo di cui pure il giovane soffriva fin da piccolo. Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico, cioè Nerone, era in tal modo rimasto l’unico discendente, adottivo, di Giulio Cesare e Ottaviano Augusto. 

Dopo i primi cinque anni felici le cose iniziarono a cambiare, secondo i soliti storici avversi al principato, a causa di una donna. Ottavia, infatti, non riusciva a dare figli a Nerone, che si era avvicinato, sempre di più, ad una giovane e avvenente ragazza, peraltro più grande di sette anni, Poppea. Nerone la invitò a sposare un suo stretto collaboratore, e amico di bagordi, Salvio Otone, per averla, in realtà, a corte con lui. Ma subito dopo, ingelositosi del finto matrimonio, li fece divorziare. Egli, intanto, ripudiò Ottavia, relegandola nell’isola di Ventotene. Nonostante il parere contrario della madre Agrippina, Nerone poté così sposare Poppea. I rapporti, tra lui e la madre, si stavano incrinando. Certamente Nerone, ormai ventiquattrenne,  non accettava più le ingerenze della madre, e probabilmente neanche quelle di Seneca e di Burro. Con Poppea pienamente imperatrice, la situazione precipitò. Nerone, sempre più freddo con Agrippina, le consigliò di ritirarsi nella sua villa a Baia, in Campania. 

In una notte dei primi di marzo del 59 Nerone convocò Seneca e Burro e li mise al corrente delle sue vere intenzioni: Agrippina doveva essere eliminata. I due tacquero per lunghi minuti. Nerone capì che non avrebbe potuto contare su di loro, li congedò, e riunì i suoi più fedeli liberti. Fu uno di essi, Aniceto, a proporre un piano: Agrippina sarebbe stata ospitata a bordo di una nave; al momento stabilito il soffitto della cabina, opportunamente sabotato, l’avrebbe travolta, facendo inabissare l’imbarcazione: la versione ufficiale sarebbe stata quella di un naufragio. A Nerone parve un piano perfetto. Tutto fu organizzato. La sera del 15 marzo del 59, però, quasi a svelare l’inganno, il cielo era limpido come non mai: nessuna nube, nessun soffio di vento. Agrippina, invitata a fare un giro in barca da Aniceto, salì sulla nave sabotata, insieme ad una fedele ancella. Ad un cenno, poco distanti dalla riva, il tetto sprofondò sulle due. Ma l’ancella, per salvare la vita di Agrippina, si gettò su di lei, coprendola. Agrippina, compreso quel che stava accadendo, si gettò in mare e raggiunse la riva a nuoto, trovando rifugio nella villa. Aniceto, colto alla sorpresa, la raggiunse, insieme ad altri pretoriani, con le spade sguainate. Agrippina, l’ultima discendente di Cesare, li aspettava nella sua stanza. Fattisi avanti,  Agrippina si scoprì il seno e chiese di colpire al cuore la figlia di Germanico. Con la mano tremante, un pretoriano la ferì a morte. 

Raggiunto dalla notizia, Nerone prima gioì. Poi, nella notte, fu preso da paura e angoscia. Quel matricidio rimarrà lo spartiacque di tutta la sua vita, privata e pubblica.

Da quel momento anche Seneca e Burro si faranno da parte. Nerone prende in mano completamente il governo dell’impero. E subito ci si accorge che il princeps assumerà un atteggiamento del tutto diverso da quello di Claudio. Come Caligola, Nerone è convinto che lo stato deve subire un processo di concentrazione di potere, di assolutizzazione, che comporta anche il culto della personalità dell’imperatore. Anche lui inizia ad atteggiarsi come sovrano orientale, inizia a farsi erigere statue e templi. Si veste come una divinità, ma al contempo si atteggia anche a poeta e ad artista: recita in teatri e in circhi, con grande stupore dei senatori.

Nel 61 muore Burro. Nerone lo sostituisce con un violento e spregiudicato pretoriano, Tigellino: sarà il suo braccio destro di crimini e scelleratezze, a cominciare dall’eliminazione della povera Ottavia, ancora in esilio a Ventotene. 

Nel 62 Poppea dà finalmente alla luce una bimba, che però muore al quarto mese. Nerone ne è gravemente colpito, ma cerca di trovare una distrazione nel progetto di edificazione di un grandioso palazzo imperiale al centro dell’urbe, che dovrà superare tutte le più grandi corti della storia: la domus aurea.

Per realizzarlo, Nerone fa sbancare colline e abbattere edifici tra il Palatino e colle Oppio. Ma molti senatori e cavalieri si ribellano. Scoppia così, nel 64, un grande incendio proprio in quei quartieri: le voci raccontano che siano stati gli emissari di Tigellino ad appiccarlo. Per sei lunghi giorni Roma brucia. Nerone, al termine dell’incendio, convoca il senato e dà la colpa ad una nuova setta giudaica, i Cristiani. Anche altri oppositori, con il pretesto dell’incendio, vengono uccisi.

La sopportazione di molti nobili e cavalieri, ma anche di tanti esponenti della cultura, è giunta al massimo: Gneo Calpurnio Pisone, e il fratello Lucio, rappresentanti di un’antichissima casata, si mettono a capo di una congiura, per eliminare il tiranno. Nella primavera del 65 tutto sembra pronto, ma un delatore rivela a Nerone tutti i nomi e i piani dei congiurati, che vengono arrestati uno dopo l’altro e condannati a morte. È una sequela lunghissima di stragi e di suicidi. Tra questi quello di Seneca, che si toglie la vita insieme alla moglie Paolina, dopo aver raccolto gli amici più cari e averli congedati con un addio all’insegna della filosofia stoica. Anche il nipote di Seneca, il poeta Lucano, è costretto al suicidio: per esser coinvolto nella congiura, recita la motivazione ufficiale; per invidia verso la sua bravura, afferma qualcuno.

Un altro personaggio, esteta ed elegante scrittore, che ha animato le serate e i banchetti della corte con le sue astuzie, è raggiunto dall’ordine di suicidarsi: è Tito Petronio, l’autore di una delle più straordinarie opere che il mondo antico ci ha lasciato, il romanzo Satyricon. 

Ma in quell’anno anche Nerone viene colpito da un altro lutto: Poppea, incinta, si ammala e muore. L’imperatore non si risposerà. E non avrà più discendenza.

Incattivito, sospettoso, violento e irascibile, divenuto il contrario di quell’immagine di optimus princeps senecano con cui aveva esordito sulla scena, Nerone vuole sbarazzarsi anche del suo lontano cugino Gneo Domizio Corbulone, grande generale cui molti guardano per una possibile sostituzione al potere. Con il pretesto di una nuova congiura, lo richiama in Grecia e gli fa consegnare la lettera con cui gli intima il suicidio. Corbulone estrae la spada ed esclamando ἄξιος, “io sono degno”, si trafigge al cuore.

L’eliminazione di Corbulone sarebbe stata la prima di un’altra lunga serie. Ma questa volta Nerone aveva toccato una parte ormai troppo potente dell’impero: gli eserciti e i loro generali. Uno dopo l’altro, nell’ottobre del 68, alcuni dopo esser stati anch’essi raggiunti da lettere dell’imperatore con l’ordine di suicidarsi, altri spontaneamente, si ribellano tre potentissimi generali, con tutte le loro legioni: quelle di Giulio Vindice, in Gallia; quelle di Servio Sulpicio Galba, in Spagna, infine quelle di Tito Flavio Vespasiano, succeduto a Corbulone in Oriente. Anche i pretoriani, temendo di essere rimpiazzati dal nuovo vincitore, abbandonano Nerone alla sua sorte. Tigellino è massacrato dai suoi stessi soldati. Nerone fugge nella villa suburbana del suo liberto favorito, Faonte, accompagnato solo da un’altra liberta, Atte, l’unica disposta a seguirlo. Qui, il 9 giugno del 68, prima di essere raggiunto dalle truppe ribelli, si suicida, rammaricandosi con se stesso, sussurrando: qualis artifex pereo, “quale artista muore con me”. Con lui finisce la dinastia giulio-claudia che, di fatto, dalla vittoria di Giulio Cesare a Farsalo del 48 a.C., aveva retto le sorti di Roma per centosedici anni. 

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