Il primo a giungere a Roma dopo la morte di Nerone, alla fine di giugno del 68 d.C., fu Servio Sulpicio Galba, comandante delle legioni stanziate in Hispania. Galba era stato acclamato imperator dalle sue truppe e così si presentò al Senato, per far ratificare la sua nomina. Aveva settantatré anni, origini nobilissime, in quanto discendeva da una delle gentes romane più antiche, aveva percorso tutti i gradini del cursus honorum fino al consolato, ed era stato apprezzato, in giovinezza, da Augusto, Livia e Tiberio. Ai senatori parve la migliore scelta per il nuovo princeps. Così ratificarono l’elezione e Galba divenne il sesto imperatore di Roma. Ma qualcuno, come scrive Tacito, notò che in tal modo “era stata di colpo svelata la segreta possibilità di eleggere l’imperatore anche lontano da Roma”. Era iniziata, in effetti, una nuova epoca.

Il principato di Galba rivelò ben presto il suo volto sospettoso e, conseguentemente, violento: furono assassinati tutti i possibili rivali e i non graditi aspiranti alla successione, a Roma e nelle province. La città si riempì di soldati provenienti dall’Hispania, dalla Britannia e dalle Gallie: rudi, violenti, spesso parlanti un latino stentato, perché nativi di quelle regioni, storditi da una metropoli piena di distrazioni e divertimenti, costituirono un ulteriore problema, a poco a poco, per l’ordine pubblico. Per sostentarli, e per vendicare molti senatori fedeli a Galba delle repressioni subite duranti gli anni neroniani, iniziarono pesanti confische ai beni della famiglia giulio-claudia. Galba, tuttavia, per età e spirito, non poteva assicurare con fermezza il complesso equilibrio che ormai era necessario nell’impero. Resosene conto ben presto, parlò in senato, affermando che “se l’immenso corpo dell’impero si fosse potuto equilibratamente sostenere senza un reggitore, egli sarebbe stato degno di essere l’iniziatore di una nuova res publica”; ma, nell’impossibilità di percorrere questa strada, indicò ufficialmente in Pisone Liciniano, imparentato con i Pisoni della congiura neroniana, il suo successore. Si decise di annunciare l’adozione nei castra militari alle porte di Roma: il 10 gennaio del 69, un giorno segnato in modo infausto da fulmini, tuoni e pioggia battente, Pisone fu proclamato erede dell’imperatore. Uomo austero e discendente di Pompeo, si inimicò ben presto altri influenti personaggi che bramavano per sé la carica, e altri importanti reparti dello stato, soprattutto i militari, che si aspettavano un’immediata ricompensa, mai arrivata.

I pretoriani, fra i più scontenti della nuova amministrazione, ordirono una congiura, appena quattro giorni dopo. A capo della ribellione si mise Marco Salvio Otone, nutrito di acceso risentimento per aver perso quel ruolo preminente avuto sotto Nerone. Era stato lui, infatti, amico d’infanzia di Nerone, a portare a corte Poppea e a farsi complice di tante avventure del princeps precedente. Aveva 36 anni ed era pronto a tutto per riconquistare il potere: anche gli astrologi, affermava, gli avevano predetto grandi fortune. Suo braccio destro, un compagno di Tigellino, Mevio Pudente. La mattina del 15 gennaio del 69 Galba, mentre presiede un sacrificio al tempio di Apollo sul Palatino, ottiene presagi sfavorevoli. Lo raggiunge di lì a poco la voce che Otone, nella caserma dei pretoriani, è stato acclamato imperator. Alcuni servitori del palazzo, e alcuni fedeli militari, spingono Galba e Pisone a scendere dal Palatino verso il Foro, arringare la folla e tentare il tutto per tutto. Giunto in prossimità del tempio di Castore, il drappello viene però aggredito dalla cavalleria di Otone. Galba è sbalzato fuori dalla lettiga e ucciso: il suo corpo è orrendamente mutilato. Pisone si rifugia nel tempio di Vesta, ma qui viene scovato: portato sulle gradinate è decapitato anche lui. Le loro teste, infisse su lunghe aste, vengono portate in giro per Roma: i soldati, scatenati, si abbandonano a saccheggi e vendette personali.

Quella sera stessa, tra festeggiamenti e bagordi, viene riunito il senato: a Otone sono decretati tutti gli onori del princeps, la potestà tribunizia e il titolo di Augustus, nell’adulazione generale. In poche ore, però, l’entusiasmo, già insanguinato, per il nuovo principato, è turbato dalle notizie sopraggiunte dalla Germania: le legioni lungo il confine del Reno, fino alla Pannonia, si sono ribellate, e hanno acclamato imperator sul campo il proprio generale: Aulo Vitellio.  

Vitellio era nato nel 15 d.C., da una antica gens italica, ed era stato uno dei collaboratori più stretti di Caligola, Claudio e Nerone: si era distinto in Germania, per spregiudicatezza e ferocia, e si era procurato il favore delle legioni. Contando sulla complicità delle truppe, alle quali era stata promessa una ricompensa notevole, Vitellio aveva fatto eliminare tutti i governatori e i centurioni fedeli a Galba, dalla Gallia belgica a quella Lugdunese, dalla Rezia alla Britannia. Aveva scelto due luogotenenti, Fabio Valente e Cornelio Cecina, e aveva affidato a ciascuno una legione, insieme ad ausiliari germanici, con l’ordine di marciare verso l’Italia. Egli li seguiva ad alcuni giorni di distanza, con quella che sembrava già una corte di ubriachi e depravati. Passando attraverso i territori della Gallia inferiore e dell’Elvezia, gli eserciti di Vitellio avevano accumulato bottini e massacri. Li aveva raggiunti finalmente la notizia del cambio di potere a Roma: il nuovo princeps nominato nell’urbe, Otone, era sembrato ancor più debole di Galba, e aveva rafforzato i propositi di Vitellio. 

Otone aveva provato ad inviargli lettere conciliatorie, nelle quali proponeva di spartirsi il potere. Ma lo scontro fu inevitabile. Il popolo, suggestionato anche da infausti presagi che si erano verificati nei templi e nell’urbe, temeva che dopo ormai quasi un secolo una nuova guerra civile avrebbe potuto coinvolgere Roma. 

A metà marzo, radunate due legioni, Otone partì dall’urbe verso la via Flaminia, per raggiungere gli eserciti che avanzavano da nord. Una flotta, intanto, era partita da Ostia per la Gallia.

Agli inizi di aprile Otone arrivò sul Po, nei pressi di Cremona, a Bedriaco. Li raggiunsero, dopo pochi giorni, le truppe di Vitellio. Lo scontro fu durissimo, ma i soldati di Otone, abituati ormai alla vita dell’urbe, non potevano avere la meglio contro i veterani germanici. Furono massacrati in poche ore. La notizia arrivò all’accampamento di Otone, che congedò i suoi fedelissimi e diede loro soldi e mezzi per fuggire. Quindi si ritirò in silenzio nella tenda, ove passò la notte. All’alba, appena alzato, si gettò sulla sua spada. Secondo le sue disposizioni, fu subito cremato. 

A Roma si stavano celebrando i giochi in onore di Cerere, l’antichissima divinità della vegetazione, tra il 18 e 19 aprile. Alcuni messaggeri, interrotta la manifestazione, annunciarono che Otone era morto e che l’esercito aveva giurato fedeltà ad Aulo Vitellio. Il senato si precipitò a ratificare la nomina e a congratularsi con il nuovo princeps, cui fu assegnato persino l’appellativo di Germanicus. Vitellio, intanto, faceva tappa in molte città dell’Emilia e lungo la Flaminia, prima di giungere a Roma.

Alla fine di maggio Vitellio fece finalmente il suo ingresso nell’urbe, lungo il Tevere, su imbarcazioni inghirlandate e festanti. Si comprese quale sarebbe stato il suo modello allorché, pochi giorni dopo aver preso possesso del palazzo sul Palatino, celebrò pubbliche esequie per Nerone, ripristinando alcune sue statue. Iniziò a trascorrere le giornate tra feste e banchetti, insieme al suo liberto e amante di nome Asiatico, che frequentava dai tempi di Caligola. Di giorno in giorno ingrassava sempre più e incrudeliva mandando a morte sospetti senatori o infedeli soldati. Passò così tutta l’estate del 69, mentre la città era preda delle bande dei suoi liberti e delle truppe germaniche che aveva fatto stanziare nelle strade e nelle piazze. L’unico a porre un freno alla situazione sembrava il prefetto dell’urbe, Tito Flavio Sabino, uomo incorrotto e abile politico. In molti avrebbero guardato a lui come a un possibile princeps. Ma nella famiglia Flavia, antica ma non patrizia, era il fratello minore di Sabino a concentrare le speranze dei più avveduti: Tito Flavio Vespasiano, che all’epoca era a capo delle legioni di stanza in oriente, tra la Giudea e la Palestina.

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