La gens Flavia, originaria di Rieti, era, stando alle fonti antiche, piuttosto umile; nessun rappresentante aveva mai ricoperto cariche pubbliche importanti. Tito Flavio Petrone era stato un disertore pompeiano di Farsalo. Il figlio, Sabino, un esattore delle imposte in Asia e poi in Elvezia, dove era morto, piuttosto giovane, lasciando da crescere due figli maschi alla moglie Vespasia, originaria di Norcia. Il primo di questi, anche lui di nome Sabino, si era fatto valere sotto Claudio e Nerone, ed era arrivato alla carica di praefectus urbis. Il secondo, Vespasiano, era nato in Sabina, vicino a Rieti, nel 9 d.C. Educato dalla nonna paterna, si era trasferito in giovane età a Roma, per intraprendere il cursus honorum. Era stato tribuno militare in Tracia, poi pretore sotto Caligola. Aveva sposato, intorno al 38, una cugina, Flavia Domitilla, e da lei aveva avuto tre figli: Domitilla, nello stesso anno, Tito, nel 39, e Domiziano, nel 51. Durante il principato di Claudio era stato inviato in Germania e poi in Britannia: era stato un caparbio comandante proprio della legione britannica e aveva riportato un trionfo. Nel 51 aveva raggiunto il consolato, ma negli anni successivi, inviso ad Agrippina, si era tenuto in disparte dalla vita pubblica, ritirandosi nel Reatino. 

Dopo la morte di Agrippina, Nerone lo aveva voluto accanto a sé nel viaggio in Grecia del 63, e gli aveva poi affidato il governo della provincia d’Africa. Qui lo aveva seguito il figlio Tito, appena ventiquattrenne, ma già capace soldato e intelligente politico: ad Alessandria, peraltro, Tito aveva stretto una relazione amorosa con la principessa cilicia Berenice. Dal 66 Vespasiano era stato inviato in Giudea, perché le popolazioni della zona si erano sollevate contro l’amministrazione romana. Per due anni, fino alla fine del 68, Vespasiano aveva tenuto testa agli insorti, mentre Tito, ad Alessandria, organizzava un blocco navale. Le vicende di questa “guerra giudaica” ci sono raccontate, caso quasi unico nella storia antica, da entrambi i punti di vista: Tacito, per i romani, e l’autore giudeo Giuseppe Flavio, che scrive in greco, per gli ebrei. Il 68 era stato un anno cruciale: Vespasiano era stato raggiunto prima dalla notizia della morte della moglie, poi anche della figlia; quindi la morte di Nerone, il breve principato di Galba, quello brevissimo di Otone, e la guerra civile con Vitellio, altro ‘neroniano’ che Vespasiano conosceva bene.

Dopo l’estate del 69, il malcontento generale per il potere di Vitellio convinse l’ormai sessantenne Vespasiano a tentare la carta dell’insurrezione. Le nove legioni della Giudea, insieme a quelle della Mesia e della Pannonia, comandate da generali a lui fedeli, proclamarono Vespasiano imperatore. 

Dalla Siria e dalla Mesia i fedeli Muciano e Antonio Primo partirono per l’Italia. Attaccarono le truppe di Vitellio, ancora una volta, sul confine naturale del Po, in ottobre, e le sconfissero nei dintorni di Cremona, in uno scontro sanguinosissimo. Vitellio riuscì a fuggire, tornando a Roma. Qui provò a intavolare trattative con il fratello di Vespasiano, Sabino. Ottenute risposte negative, tentò un ultimo meschino colpo di mano: attirò in un tranello Flavio Sabino e altri senatori, nel Campidoglio. Quindi, serrate le porte, diede ordine di appiccare il fuoco, compiendo una strage sacrilega senza precedenti. Per puro caso si salvò dall’eccidio il figlio più giovane di Vespasiano, Domiziano, allora diciottenne. 

A questa notizia anche il popolo insorse. Tradito dai suoi, scovato in un nascondiglio ove si era rifugiato all’interno del palazzo, Vitellio, come racconta Svetonio, fu trascinato nel foro seminudo, legato con le mani dietro la schiena, imbrattato di sterco e fatto oggetto di ludibrio. Trapassato da centinaia di colpi, fu gettato prima da una rupe e quindi nel Tevere. Insieme a lui furono massacrati il fratello e il figlio. Era il 20 dicembre del 69. 

Il giorno successivo le truppe di Antonio Primo entrarono vittoriose a Roma. Il senato proclamò imperatore Vespasiano e console il figlio Tito. I due si trovavano però ancora in Oriente, alle prese con l’assedio di Gerusalemme. Fu il giovane Domiziano ad affacciarsi dal Palatino e rivolgere un saluto al popolo radunato nel Foro. Terminava un anno terribile per Roma e per l’impero, un anno che aveva visto avvicendarsi addirittura quattro imperatori.

Appena passata la stagione invernale, Vespasiano lasciò Tito a sedare le resistenze giudaiche a Gerusalemme, si imbarcò e raggiunse Roma in primavera. Qui fu acclamato imperatore da una folla festante. Chiarì subito che i rapporti con il senato sarebbero stati improntati a fiducia e rispetto. Assegnò ai cavalieri incarichi di prestigio e di alto profitto. Ricompensò i militari con donativi e riorganizzò le legioni e le milizie pretoriane. Ordinò frumentazioni per la plebe urbana, nonché grandi giochi e spettacoli.

Era chiaro che la sua accortezza gli avrebbe garantito un governo più stabile e apprezzato di molti predecessori, e così fu. Con la lex de imperio Vespasiani, al princeps fu ritagliato un ruolo preciso, slegato da appartenenze gentilizie: la stipula di trattati con altri stati e popoli,e  la possibilità di nominare candidati al consolato erano due delle principali novità istituzionalizzate. A lui, e alla successiva breve dinastia flavia, si deve anche un impulso alla mobilità sociale nell’impero: Vespasiano rinnovò il senato con membri appartenenti al ceto equestre, e promosse a ruoli importanti nell’amministrazione pubblica e nei quadri militari figure provenienti anche da ceti inferiori. Veterani e liberti ricoprivano cariche importanti nelle proprie città, in ogni provincia. E proprio i provinciales costituiranno i nuovi protagonisti dei futuri secoli: ceti medi intraprendenti e spesso istruiti, in cerca di successo politico ed economico. Di qui a qualche decennio il senato si popolerà di nuovi senatori provenienti dalla Gallia, dalla Spagna, e persino dall’Africa: l’integrazione delle élite provinciali nella classe dirigente costituirà la caratteristica fondamentale dei secoli I-II d.C.: si tratterà, tuttavia, ancora di famiglie di antica origine italica o romana, discendenti di coloni partiti dall’Italia anche due secoli prima, che avevano raggiunto nei propri territori posizioni di spicco. 

Vespasiano diede impulso a nuovi progetti edilizi. Egli stesso iniziò la costruzione di un grandioso anfiteatro, sopra alcune sostruzioni della incompiuta Domus Aurea di Nerone. 

Intraprese anche una nuova opera di moralizzazione della vita pubblica e civile, con leggi sul lusso, sui banchetti e sui matrimoni. Per tutto il suo principato, come sottolinea Svetonio, “fu semplice e clemente; non nascose mai la modestia della propria origine, anzi frequentemente se ne gloriò”. Non si ricordano, durante i suoi anni, assassinii politici o esecuzioni sommarie.

Il solo difetto che le fonti gli assegnano fu una certa avidità: il suo nome, del resto, è legato alla tassa che fece istituire sui gabinetti pubblici; allorché un pretore gli fece notare che esigeva denaro persino per far espletare i bisogni ai cittadini, Vespasiano rispose con la famosa frase pecunia non olet, “il denaro non ha odore”. A tutti gli altri che domandavano il perché di tanta oculatezza nell’amministrazione e nelle tasse, rispondeva: “Ci vogliono 40 miliardi di sesterzi per ristabilire le casse dello stato”.

A lui si deve però la prima politica di istruzione ‘pubblica’ che si conosca a Roma. Stipendiò con un’alta paga diversi retori, greci e latini, e garantì la possibilità che centinaia di giovani romani potessero avere una formazione. Il più importante retore del tempo fu Marco Fabio Quintiliano, chiamato a corte dall’Hispania, autore di un cospicuo trattato sull’Istruzione dell’oratore, ove affronta questioni retoriche e letterarie, ma anche aspetti pedagogici e strategie didattiche. Quintiliano riflette, come farà lo storico Tacito, sulla decadenza dell’oratoria politica, che fino all’età cesariana era stata accesa e brillante, ma che con la fine della libertas repubblicana si era inevitabilmente moderata. Altri generi letterari erano ora maggiormente frequentati: le composizioni d’occasione e di celebrazione, in primo luogo, le cosiddette declamationes, che venivano ‘lette’, appunto ‘declamate’, nei grandi palazzi aristocratici, nelle ville o anche a corte, in riunioni culturali e festose, o in veri e propri ‘concorsi’ a premi. Anche l’epica stava vivendo una nuova stagione: un’epica nuova, soprattutto di argomento mitologico, come le Argonautiche di Valerio Flacco o la Tebaide di Stazio, dedicata alle vicende tragiche dei figli di Edipo. Un poema di argomento storico era invece quello di Silio Italico, che affrontava le vicende, ormai lontanissime e avvolte dalla leggenda, delle guerre puniche. Tutti e tre i poemi erano caratterizzati da grandi scene patetiche e pezzi di bravura: era questo che ora si chiedeva al poeta, accanto, ovviamente, alla celebrazione del mecenatismo dei Flavi e alla lode dei tempi felici.

Sempre a questi anni risale l’impulso fondamentale allo sviluppo di una vera e propria ‘corte’ imperiale, un insieme di dignitari e funzionari addetti alle più diverse funzioni legate alla figura dell’imperatore. Già con Claudio e Nerone gli incarichi del palazzo del princeps si erano moltiplicati. Dai Flavi in poi tutta una serie di ruoli saranno istituzionalizzati: chi li ricopriva sarebbe potuto diventare ricco e potente, non tanto per una carriera ufficiale, quanto per il favore dell’imperatore. 

Il 23 giugno del 79, all’età di settant’anni, provato dai lunghi periodi militari e da un fisico appesantito, Vespasiano morì, aggravatosi in pochi giorni. Suo figlio maggiore, all’epoca quarantenne, fu senza alcun tentennamento proclamato nuovo Augustus dal senato, e acclamato dall’esercito e dal popolo.

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