Tito Flavio Vespasiano iunior era nato alla fine del 39, nella modesta casa romana dei Flavi. Per l’amicizia del padre con Claudio, era cresciuto per qualche anno insieme al principe Britannico, nel palazzo, istruito dagli stessi maestri del figlio dell’imperatore. Diede subito prova, fin dall’infanzia, di grandi doti: abile nell’esercizio militare e portato anche per le arti. Ben presto lo definiranno “delizia del genere umano”.

Aveva militato in Germania e in Britannia, al seguito del padre. Nel frattempo si era sposato ben due volte: vedovo senza figli della prima moglie, Arrecina, aveva ripudiato la seconda, Marcia, dopo averne avuto una figlia, Giulia Flavia.

Sempre al seguito del padre in Oriente, aveva conosciuto ad Alessandria la principessa Berenice di Cilicia, di cui si era innamorato. Ma le operazioni militari in Giudea, che gli aveva affidato il padre, lo avevano costretto a lasciare l’Egitto e a tornare a Gerusalemme. Qui, fin dal 69, aveva preso in mano l’assedio della città, che portò a termine nel 70. Tutti gli abitanti furono giustiziati o deportati, il Tempio di Salomone fu distrutto, e gran parte della città incendiata. A ricordo dell’impresa, Tito fece erigere nel Foro, all’inizio della via Sacra, un arco di trionfo che rappresenta la conquista di Gerusalemme e la spoliazione di uno dei simboli più importanti dell’ebraismo, il candelabro a sette bracci. 

Tornato a Roma l’anno successivo, Tito fu sempre più stretto collaboratore del padre. Si accendevano però, al tempo stesso, i dissidi con il fratello Domiziano, di dodici anni più giovane. Tito, su consiglio di Vespasiano, aveva proposto al fratello di sposare la figlia Giulia. Domiziano, però, era legato dall’amore per una figura importante della Roma di allora: Domizia Longina. Costei era la figlia di Domizio Corbulone, il grande condottiero delle legioni orientali fatto eliminare da Nerone qualche anno prima. Domizia, benché non ancora ventenne, era già sposata, ma Domiziano riuscì con insistenza a farla divorziare dal marito, per unirsi in nozze con lei. Spregiudicata e disposta a tutto per diventare imperatrice, Domizia sarebbe stata al fianco di Domiziano nella segreta gelosia per Tito, in tutti gli anni del principato di Vespasiano. 

Nel giugno del 79 Vespasiano muore. Tito, già associato al potere da due anni, diviene il decimo imperatore di Roma, nella felicità generale. Giorni e giorni di festeggiamenti salutano nell’urbe il nuovo princeps, che dichiara di voler proseguire la politica di equilibrio del padre. 

Appena quattro mesi dopo la sua elezione, tuttavia, un evento funesto sconvolge l’opinione pubblica: il 24 ottobre, dopo alcuni giorni di leggere scosse di terremoto, quello che le popolazioni locali credevano fosse un semplice monte, coperto di vigneti e di abitazioni, si rivela un vulcano. È l’eruzione del Vesuvio, che distrugge le cittadine di Pompei, Ercolano e Stabia, e provoca migliaia di vittime. Tra queste, una delle figure più significative della scienza e dell’erudizione del tempo, Plinio il vecchio, autore di uno straordinario repertorio di quasi tutte le discipline antiche, dalla biologia alla botanica, dalla zoologia alla mineralogia, e molto altro. La sua morte, insieme a molti particolari dell’eruzione, ci è raccontata dal nipote, anch’esso letterato, in una lettera indirizzata all’amico Tacito: 

“Egli era a Miseno, e dirigeva personalmente la flotta. Il nono giorno prima delle calende di settembre (24 agosto), verso l’ora settima, mia madre gli fa notare che sta apparendo una nube inconsueta sia per grandezza che per forma. Egli, dopo aver preso il sole e aver poi fatto un bagno freddo, aveva pranzato, sdraiato, e stava studiando: chiede i sandali e sale in un luogo da cui quel fenomeno straordinario poteva essere osservato al meglio. Una nube si formava (non era chiaro all’osservatore, da lontano, da quale monte s’innalzasse: si seppe, poi, essere il Vesuvio), il cui aspetto e forma nessun altro albero più del pino potrebbe rappresentare. Essa, infatti, levatasi verso l’alto come da un altissimo tronco, si allargava poi come dei rami: credo perché, sollevata da una corrente vicina e poi abbandonata a se stessa per il cessare di quella, o anche vinta dal suo stesso peso, si dissolveva in larghezza; a tratti bianca, a tratti nera e sporca a seconda che aveva trasportato terra o cenere. Da persona eruditissima quale era, gli parve che fosse un fenomeno importante e da conoscere più da vicino. Ordina che gli sia apprestata una Liburnica: mi offre la possibilità, se voglio, di andare con lui. Io gli risposi che preferivo restare a studiare. Era sul punto di uscire di casa, quando riceve un messaggio di Rettina, moglie di Tasco, atterrita dal pericolo che la minacciava (la sua villa era, infatti, ai piedi del monte, e non vi era nessuna possibile via di scampo se non con le navi): lo supplicava di sottrarla a tale pericolo. Egli, allora, cambia decisione e, quello che aveva intrapreso con animo desideroso, fece con animo coraggioso. Fa mettere in mare le quadriremi e s’imbarca egli stesso, per portare aiuto non solo a Rettina, ma a molti (infatti la bellezza del litorale lo rendeva molto popoloso). Si affretta proprio là donde gli altri fuggono; tiene la rotta diritta, il timone volto verso il luogo del pericolo, così privo di paura da dettare e commentare tutte le variazioni di quel flagello, tutti i fenomeni come li aveva colti con i suoi occhi. 

Già sulle navi pioveva cenere, sempre più calda e densa quanto più esse si avvicinavano; e si vedevano già anche pomici e pietre annerite e bruciate e spezzate dal fuoco; poi ecco una secca inattesa e la spiaggia che faceva da ostacolo per il crollo del monte. Dopo una breve esitazione, indeciso se tornare indietro, subito esclama al timoniere che glielo suggeriva: “La sorte aiuta gli audaci, dirigiti verso Pomponiano!” Questi si trovava a Stabia, appartato dal centro del golfo. Infatti il mare si insinua gradualmente in litorali arrotondati e ricurvi. Lì Pomponiano, sebbene il pericolo non fosse ancora imminente, ma era ad ogni modo evidente, e, crescendo, sarebbe stato anche vicino, aveva trasferito i suoi bagagli sulle navi, pronto a fuggire se il vento contrario si fosse calmato.  Allora mio zio, spinto da un vento del tutto favorevole, abbraccia l’amico impaurito, lo conforta, lo esorta, e, per calmarne le paure con la propria sicurezza, chiede di essere portato al bagno: si lava, si sdraia e cena, e allegro, o, cosa altrettanto straordinaria, simile ad uno allegro. Frattanto, in molte parti del monte Vesuvio risplendevano vastissime fiamme e alti incendi, il cui chiarore e la cui luce erano resi più vividi dalla oscurità della notte. Come rimedio per  le paure, mio zio diceva che a bruciare erano fuochi lasciati accesi per lo spavento dei contadini e case abbandonate in luoghi disabitati. Poi se ne andò a dormire e dormì di un sonno in verità molto profondo: infatti il suo respiro, che egli aveva piuttosto pesante e rumoroso a causa della corporatura massiccia, era udito da quanti passavano accanto alla soglia. Ma il livello del cortile dal quale si raggiungeva il soggiorno si era così innalzato, ricoperto da cenere e pomici, che, se avesse più a lungo indugiato nella stanza da letto, sarebbe stato impossibile uscire. Svegliatosi, egli esce dalla sua camera e raggiunge Pomponiano e gli altri che erano rimasti svegli. Insieme decidono se devono restare in casa oppure uscire all’aperto. Infatti, le case ondeggiavano per le frequenti e violente scosse e, quasi smosse dalle loro fondamenta, sembravano sbandare e riassestarsi ora da una parte, ora dall’altra. Dall’altra parte, all’aperto si temeva la pioggia di pomici, per quanto leggere e corrose, cosa che, tuttavia, il confronto dei pericoli fece scegliere; e in lui in verità il ragionamento vinse il ragionamento, mentre negli altri la paura vinse la paura. Con degli stracci legano dei cuscini posati sul capo. Fu questo il loro riparo contro quella pioggia che cadeva. Già altrove faceva giorno, ma lì regnava una notte, più scura e fitta di ogni altra notte, sebbene molte fiamme e varie luci la mitigavano. Egli decise di uscire sul litorale e guardare da vicino se ormai il mare concedesse qualche possibilità, ma questo era ancora agitato e impraticabile. Lì, riposando su un lenzuolo disteso, chiede una volta e poi un’altra ancora dell’acqua fredda e la beve; intanto le fiamme e l’odore sulfureo che le annunciava mettono in fuga alcuni e risvegliano lui. Appoggiandosi su due schiavi, si alzò in piedi, ma subito cadde, perché, suppongo, per la caligine gli si era bloccato il respiro e chiusa la trachea, che egli aveva per natura debole, stretta e frequentemente infiammata. Quando fu giorno (era il terzo dopo quello che aveva visto per ultimo), il suo corpo fu ritrovato intatto, illeso e coperto così come era vestito: l’aspetto del corpo era più simile a un uomo che dorme che a un morto”. 

Tito, appresa la tragedia verificatasi in Campania, si reca dopo poche settimane sui luoghi del disastro, emana provvedimenti speciali per sostentare i superstiti, e soprattutto gli orfani. Torna più volte a far visita ai cantieri per la riedificazione delle cittadine. Altri due eventi luttuosi funestano il suo principato, nel successivo anno 80: una gravissima epidemia che fa migliaia di morti in tutto il Mediterraneo, e un nuovo incendio di Roma, prontamente limitato, però, dall’efficienza dell’imperatore. 

Nonostante queste sciagure, l’80 è segnato anche dall’inaugurazione dell’anfiteatro flavio, con spettacoli durati giorni e giorni, di incredibile ricchezza e varietà. Un giovane poeta proveniente dalla Spagna, per iniziare la sua carriera e farsi largo tra tanti artisti convenuti nell’urbe, celebra i diversi spettacoli dell’inaugurazione in un libello di epigrammi, che dedica all’imperatore: il suo nome è Marco Valerio Marziale. Il libello non avrà più di tanta fortuna, e Marziale vivrà con alterne vicende tra Roma e la villa di un suo amico a Mentana.Scriverà oltre dieci altri libri di epigrammi: il breve componimento che coglie un aspetto di un evento o di una persona con arguzia e puntualità, concluso spesso da una sententia sorprendente o provocatoria. La sua è una testimonianza straordinaria della società romana del tempo, soprattutto nei suoi aspetti più viziosi e goderecci, ma anche nelle pieghe più segrete psicologiche e antropologiche dell’uomo.

Tito continua il suo governo illuminato e capace, ma nel settembre dell’81, mentre si sta recando in Sabina nella villa paterna, è costretto a fermarsi per un malore. Chiede di compiere un sacrificio, ma la vittima gli sfugge di mano: segno di malaugurio. Risalito in lettiga, è colto da una febbre alta. Di lì a pochi giorni, il 13 settembre dell’81, dopo appena due anni di principato, muore, a quarantadue anni. “Quando si diffuse la notizia della sua fine”, osserva Svetonio, “il popolo intero se ne addolorò come per un lutto familiare. Egli ebbe un tributo di lodi e di ringraziamenti quale prima non era mai stato accordato”. 

Dopo anni di segrete invidie e gelosie nei confronti del fratello, nel giugno dell’81, dunque, Tito Flavio Domiziano assumeva il potere come nuovo Augustus: aveva esattamente trent’anni.

Cresciuto anche lui prima nella parsimonia del padre e della nonna paterna, poi nel fasto della corte neroniana, aveva assimilato molti vizi e poche virtù della famiglia Flavia e degli ambienti aristocratici, stando alle testimonianze, tutte negative, della storiografia a noi pervenuta, quella nobiliare e senatoria. 

Era scampato, a diciott’anni, all’eccidio del Campidoglio ordito da Vitellio. Aveva sposato, giovanissimo, Domizia Longina, intraprendente figlia del grande generale Corbulone, che lo amava, certamente, ma che per l’impetuosità del carattere lo tradiva spesso con personaggi di rango e non. Aveva provato, durante il principato di Vespasiano, a compiere due campagne militari nelle Gallie e in Germania, per emulare le imprese del fratello Tito in Giudea, ma senza alcun successo. Così, nutrito sempre più di livore, aveva trascorso gli anni di Tito tra feste e intrighi di corte. Circolarono, alla morte di Tito, persino alcune voci secondo le quali sarebbe stata Domizia, dopo aver sedotto l’imperatore, ad avvelenarlo segretamente causandogli le febbri che lo avrebbero portato alla morte. Su questo, tuttavia, anche gli storici più malevoli sembrano scettici. 

Condotto a Roma il feretro del fratello, Domiziano pronuncia per lui un elogio funebre falso e a volte addirittura ironico, suscitando già con questo primo gesto il risentimento dei senatori e del popolo.

Subito dimostra un carattere irascibile, arrogante e dissimulatore. Pochi mesi dopo fa uccidere il cugino, abile generale, Flavio Clemente, sposato con un’altra cugina, Domitilla, accusandoli di appartenere ad una nuova setta religiosa che mette in discussione la fedeltà all’imperatore, i Cristiani. Nel terreno dove sorge la loro villa, tra l’Appia e l’Ardeatina, i cristiani troveranno rifugio in una delle prime catacombe di Roma, appunto quelle di Domitilla.

La principale attività di Domiziano nell’urbe consiste nell’organizzazione di giochi e spettacoli: fa costruire un nuovo stadio, accanto al Campo Marzio, soprattutto in funzione dell’allestimento di naumachie, le finte battaglie navali. Lo stadio viene riempito con l’acqua del Tevere attraverso un sistema ingegnoso di pompe. È l’attuale piazza Navona, che nel nome porta ancora il ricordo degli antichi scontri ludici. 

L’opera edilizia a Roma si estende con la costruzione di un più ampio palazzo sul Palatino, dotato di un altro stadio privato e di terme private. Ancora, nell’attuale area di piazza dei Cinquecento, inizia la realizzazione di un grande teatro musicale, i cui resti sono ancora visibili all’interno di Palazzo Massimo.

Si infittiscono anche i programmi di gare letterarie, di declamazioni in prosa e di poesia: in una di queste, nel 94, gareggia e si distingue Quinto Sulpicio Massimo, lo sfortunato undicenne che dopo pochi giorni avrebbe trovato la morte, e che sarebbe stato sepolto in una tomba, nell’attuale Piazza Fiume, che reca, ancora oggi, la composizione vincitrice della gara, un carme sul mito di Fetonte, lo sventurato giovane che si spinge troppo vicino alla terra guidando il carro del Sole. 

È, tuttavia, ottimo amministratore di giustizia: espelle giudici corrotti e radia dal senato chi si è macchiato di concussione. L’opera di censura prevede anche la distruzione di libri diffamatori nei confronti di uomini dello stato, nonché, ovviamente, dell’imperatore. Per questo clima di estremo controllo sarà accusato, da tutti gli autori che scriveranno dopo la sua morte, di illiberalità. 

Nell’83 intraprende una campagna militare contro i Catti, popolazione della Germania oltrerenana. La campagna si risolve in un nulla di fatto ma, in qualche modo, Domiziano mantiene saldi quei pericolosi confini: istituisce, infatti, tra Reno e Danubio, gli agri decumates, una sorta di territori ‘cuscinetto’ che hanno la funzione di attutire i colpi delle penetrazioni germaniche. Tornato a Roma, si fa decretare un trionfo splendido, anche se deriso da molti senatori ostili, subito messi a tacere. Per questa impresa si fa assegnare il soprannome di “Germanico”. 

La sua tendenza assolutistica del potere inizia a manifestarsi dopo cinque/sei anni di governo, alle voci delle prime congiure. A molti personaggi di rango vengono prima inflitte pene umilianti, poi l’esilio, quindi veri e propri assassinii. Tra questi, uno dei più famosi condottieri romani, che aveva esteso il controllo di Roma in Britannia, Giulio Agricola. Era il suocero di Cornelio Tacito, lo storico che gli dedicherà una appassionata biografia dove ripercorre le sue imprese e la sua grande caratura morale.

Nel 93 tutti i filosofi vengono cacciati da Roma: i loro discorsi e i loro libelli che incitano alla libertà e alla resistenza morale verso la tirannide non sono più sopportati dall’imperatore; alcuni vengono persino imprigionati e uccisi. Anche tutte le sette orientali religiose vengono osteggiate, e i seguaci perseguitati: tra questi anche i cristiani di Roma.

Nel frattempo, anche nella vita privata Domiziano inizia a dare segni di squilibrio. Dopo aver ripudiato l’amata e odiata Domizia, stringe una relazione proprio con la nipote carnale Giulia, figlia di Tito, che aveva rifiutato tanti anni prima, e che ora è sposata ad un nobile senatore. La mette incinta e la fa divorziare, ma senza sposarla: il destino vuole che la povera Giulia muoia di parto. Così Domiziano richiama Domizia dall’esilio che le aveva inflitto, decretando però, in tal modo, la sua fine. Domizia, infatti, trama di lì a poco una congiura con i liberti che sembrano i più fedeli dell’imperatore, Partenio e Stefano. Domiziano, sempre più agitato e sospettoso, si aggira armato per i corridoi del palazzo imperiale, temendo ogni minimo presagio negativo. Il 18 settembre del 96 Partenio lo attira con un pretesto nella camera da letto. Qui i congiurati lo trafiggono con sette pugnalate. 

La sua vecchia nutrice, Fillide, ne salva il corpo e gli dà gli onori funebri di nascosto, in una villa lungo la via Latina, mentre a Roma i senatori, esultanti, si riuniscono per decidere il da farsi. 

Afferma Tacito, che visse quegli anni nel timore della censura e della repressione: “Per quindici anni, un periodo lunghissimo nella vita di un uomo, molti sono venuti meno per casi fortuiti, ma le persone più ardite sono morte per la crudeltà del principe. In pochi siamo sopravvissuti: non solo agli altri ma, se posso dire così, a noi stessi. Del fiore degli anni ci è stato strappato un periodo tanto lungo che quelli che tra di noi erano giovani sono diventati vecchi e i vecchi sono giunti al limite estremo dei loro anni. E nel silenzio”.

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